IL «DOCARI» E QUEI MOTORI DA LECCARSI I BAFFI
Il centauro-fotografo «Docari» e la sua vita ad alta velocità. Prima la gavetta scendendo dalle Torricelle sui carrettini poi le rielaborazioni dal Rospo Volante alla Lambretta. «Siamo i monelli della Valdonega»
Jeans e camicia Levi’s, stivali a punta, RayBan a goccia. Il resto lo fanno zazzera e baffoni. Colonna sonora Hendrix e i Rolling Stones. Avesse scovato uno come Riccardo Ceranto, da sempre conosciuto come il «Docari» Oliver Stone una comparsata da reduce del Vietnam gliel’avrebbe data.
Tipi Veronesi è una nuova proposta del Corriere di Verona. Il senso dell’iniziativa è quello di raccontare, attraverso la storia di personaggi più o meno famosi, l’evolversi della nostra città. Uno sguardo al passato rivolto al futuro, affidato alla penna del nostro collaboratore Lorenzo Fabiano. Per eventuali segnalazioni scrivere a corri er ed i vero na@rcs.it o a lorenzo.fabiano@me.com
Jeans e camicia Levi’s («Basevi era la mia boutique» ridacchia), stivali a punta, RayBan a goccia. Il resto lo fanno zazzera e baffoni. Colonna sonora, Jimi Hendrix e i Rolling Stones. Con gli ingredienti giusti, il piatto è prelibato. Avesse scovato uno come Riccardo Ceranto, Oliver Stone una comparsata da reduce del Vietnam gliel’avrebbe data. Non ci troviamo a Berkeley tra i contestatori Peace & Love, semmai come vedremo è Daytona a non essere poi tanto lontana. Siamo in Valdonega, dove il mito Usa lievita nel dopoguerra grazie agli americani che vi mettono radici: «Erano tanti, e che macchine...! Eravamo avanti in Valdonega, si parlava già inglese qua».
Classe 1950, papà impiegato in Provincia, mamma casalinga, tre sorelle e un fratello. Abitano in via Pescetti: al piano di sotto stanno i Cinquetti, famiglia benestante. Gigliola è una ragazzina carina, che studia pianoforte al conservatorio. Ancora «Non ha l’età», ma le porte del successo le si apriranno presto: «Gigliola vinse il Festival di Sanremo e suo padre acquistò una Mercedes. Quando si presentò in via Pescetti col macchinone, eravamo tutti alla finestra. E chi ne aveva mai visto uno come quello...! Le due sorelle Cinquetti erano ragazze perbene ed educate, io un selvaggio: già alle medie cambiai un paio di scuole, anche dal Grest mi spedirono a casa: troppo monello. Le Torricelle erano il nostro territorio. Non vedevi l’ora arrivasse l’estate per startene fuori tutto il giorno; tra guerriglie con le fionde e discese sui carrettini giù dai tornanti del Parco delle Colombare, arrivava sera e nemmeno te ne accorgevi. Oggi la Valdonega è un dormitorio».
È in quel periodo che Riccardo diventa per tutti Docari: «Fu Flavio Favetta, la voce de “Le Scosse” e mio amico d’infanzia, ad affibbiarmelo. È l’acronimo zoppo di Riccardo. Se qualcuno, non succede mai, mi chiama col mio nome non mi volto nemmeno». Con la maggiore età Docari racimola i primi schei lavorando in un negozio di cornici davanti al Liceo Maffei. Sono gli anni ‘70, il periodo delle sgasate in moto e le compagnie nei punti focali della città: «Piazza Vittorio Veneto, piazza Bra, San Zeno, l’Arsenale. Ti godevi con nulla. Adesso se
no i gha el telefonin, par che i mora». La passione per le due ruote: il primo motorino, un Italjet, Docari lo acquista con i soldi che l’assicurazione gli liquida per un incidente. Succede però che un altro «botto» lo mette a piedi: due anni senza patente (poi gli verrà data ragione). E allora che fare? Papà Cesare è appassionato di fotografia; un’idea per il figlio che acquista una macchina fotografica: «A inizio anni ‘80 insieme a Daniele Tanto e Gianni Burato aprimmo lo studio fotografico Chato. Con Daniele, fotografo di professione, siamo amici da una vita. Gianni, grafico e illustratore, era un fumettista dal talento geniale. Purtroppo il destino se l’è portato via un paio di anni fa. Lavoravamo per le campagne pubblicitarie: la foto a Dirceu che sponsorizzava il Latte di Verona, la feci io, anche se era lo Still Life ad appassionarci di più. Andammo avanti una decina d’anni, poi ognuno prese la propria strada».
Arriva così l’ora di dedicarsi a ciò che più di ogni altra cosa gli scalda il cuore, i motori: «Pescavo pezzi qua e là e li assemblavo: passai dal cinquantino elaborato, il Rospo Volante, alla Lambretta cc50 potenziata a cc 160. Poi vennero le moto da cross, il Ktm su tutte, e infine quelle da strada. La Yamaha Rd 350 è quella che ho amato di più. Adesso sta in garage. La sto restaurando, ma fuori non ci vado. Se ghe
vo, i me liga dopo cento metri». Moto, ma anche auto: quei baffoni al volante della Bianchina rossa «rinforzata» non passavano certo inosservati. Docari entra nei team rally quale preparatore dei motori; partecipa ai rally di Sardegna, Montercarlo e Rac: «La macchina
l’era bona, ma el pilota un aseno. “Guarda che l’acceleratore è il pedale a destra” gli dicevo». Con gli amici mette su la scuderia Quattro Ossi Reparto Arsare, nome che è tutto un programma. Oggi lo trovi allo Speaker’s Corner di piazza Vittorio Veneto a tenere sermoni su Valentino Rossi («Un fenomeno. Ai miei tempi adoravo Barry Sheene e Kevin Schwantz, due matti»). La domenica indossa casco e tuta, e gira in pista ad Adria (la sua Daytona) sulle due ruote, il vecchio amore: «Ci divertiamo. Del resto nella mia vita ho fatto solo cose che mi andavano di fare». Un ribelle, un uomo libero rimasto fedele a se stesso, direte voi. Sì, ma non fatela troppo lunga, chiamatelo pure Docari.
Quanti americani nel quartiere ai tempi del dopoguerra, e che auto: eravamo il posto più avanti di Verona, si parlava già inglese qua