La lunga notte delle due destre fra rivoluzione e ritorno a casa
Da Vicenza a Treviso, viaggio nel trionfo (senza effetto Gentilini)
Pochi maledetti e subito. I voti come i soldi – mai visti tanto pochi, mai visto tanto astensionismo – pochi e soprattutto subito, dati col braccino corto, tutti al primo turno, senza il rateo dei ballottaggi, al netto del fastidio di doversi recare un’altra volta alle urne per decidere tra i migliori perdenti. E questo vale per gli elettori. Per quanto riguarda gli eletti, beh a questi non poteva andare meglio: Conte a Treviso, Rucco a Vicenza, una botta e via.
Vicenza e Treviso, diverse eppure simili, entrambe conquistate dalla destra, ma ognuna a suo modo, ognuna per il suo verso – per Treviso è un «Torna a casa Lassie», per Vicenza è un nuovo inizio tanto che a misurarne la distanza tra le due città non basta percorrere la sciagurata provinciale che le unisce, bisogna andarci. Sia qui che là i vincitori erano in piazza a sbracciarsi, a stringere mani, a baciarsi le guance; la differenza era solo nella postura: come a Vicenza il vicentino Rucco appariva frastornato e incredulo, così a Treviso il trevigiano Conte troneggiava consapevole e appagato.
Chiamiamolo «effetto Salvini», anzi «postura Salvini», quella di chi dà la vittoria per scontata e il giorno dopo ne misura l’incasso, pesa il dovuto e constata l’ovvio, è la postura di chi già sapeva come sarebbe andata a finire. Per Treviso è la fine di una ricreazione durata una legislatura, per Vicenza è una novità inaudita, immaginata e anche se messa in conto mai creduta per davvero, nessuno della giunta Variati la dava per ineluttabile: al contrario, ieri mattina Vicenza si è svegliata irriconoscibile, sudata, dopo una notte passata a rotolarsi nel letto. E che notte. L’efficente e operosa città, alle quattro non aveva ancora concluso lo spoglio quando da due ore Treviso era già tutto cotto e mangiato. «E c’è un perché naturalmente – racconta uno scrutatore vicentino di sinistra – ci siamo litigati i voti fino all’ultimo, tanto che la conta non sembrava più uno spoglio ma un incontro di wrestling. C’è stata tensione, fino all’ultimo abbiamo sperato in un ballottaggio e solo dopo che non c’erano più schede da contare, con la rassegnazione, siamo tornati amici, avversari ma amici. Giuro, per una notte intera ce ne eravamo dimenticati». Tracce di rossetto, una piega da poter sembrare un’orecchietta, tutto veniva buono per contestare le schede «nemiche».
A Treviso il distacco è stato subito chiaro e netto, ma soprattutto dovuto. Dimitri Coin, il Giorgetti della Marca che nella penombra ha confezionato le liste della vittoria, sotto i portici di Treviso sembrava un allibratore intento a contare l’incasso più che uno scommettitore: «Il segreto è stato nella squadra, abbiamo messo su un team formidabile, anzi, se io dovessi riformare la legge elettorale obbligherei i candidati sindaci a presentarsi con le rispettive formazioni. Facce nuove, credibili». Più in là, significativamente più in là, c’era quella dello sceriffo Gentilini improntata al riso e al trionfo come sempre ma un po’ meno trionfale e un po’ meno ridanciana del solito. Lui, nella «sua» lista Zaia, ha avuto appena 260 preferenze. «Il matrimonio non gli ha fatto bene», chiosano i cattivi. Ecco che però basta cambiare tavolo al bar e trovi subito chi gli rende merito: «Qui è nata la Lega, qui c’è stato Gentilini, qui la sinistra è stata messa a tacere prima che altrove, riconosciuta per quella che è, incapace di parlare a chi lavora sedici ore al giorno nei capannoni e si guadagna la pagnotta». Parla un signore delle professioni liberali, basettone e baffi alla Cavour che si asciuga con il dorso della mano prima di calare l’inappellabile verdetto: «Manildo? Inesistente, un burocrate che ricorderemo per la fascia tricolore che indossava alle cerimonie ufficiali».«Uno di passaggio – rincara l’amico – uno che aveva un’idea di Treviso salottiera e culturale, peccato che non fosse la stessa dei trevigiani». Da oggi, in consiglio comunale di Treviso entrerà un rappresentante di Forza Nuova, dopo la vacanza a sinistra (più della vittoria della destra è questa che andrebbe spiegata) la città torna alle origini, si ritrova, con il nuovo e giovane sindaco che come Gentilini porterà il cappello alpino e l’alpenstok per le gite sul Grappa. «Manildo era un estraneo e lo sapeva. Tanto è vero che non ha avuto nemmeno il coraggio di rimettere le panchine per gli immigrati tolte da Gentilini».
Vicenza non è così, Vicenza la frastornata ha una storia a sinistra lunga almeno quanto quella che Treviso ha speso a destra, navigazioni opposte, stesso approdo e con che effetti: fin dalla mattina, al mio buongiorno, una signora ha replicato di brutto: «Non è un buon giorno». Mai come qui la felicità dei più prospera sulla disperazione dei meno. «Non so come dirlo, è l’effetto Fassino, inspiegabile con la ragione, quello di un sindaco come Variati, a cui non si puoi rimproverare nulla, che viene cacciato pur avendo bene amministrato». E c’è anche chi, avendo avuto molto, voleva di più e lo cerca ancora, come Leonardo De Marzo, studente al terzo anno di scienze politiche beneficiato da 263 preferenze. «Alla conta mi mancano cento voti, domani li vado a cercare uno a uno sulla faccia dei mei amici e saprò chi mente». O un altro, come Silvio Giovine, un normale ragazzo di destra cresciuto sotto l’ala della Donazzan che con 446 preferenze ora ha i numeri per aspirare alla poltrona di vicesindaco.
La sfida di Vicenza Testa a testa, ci siamo litigati fino all’ultimo voto come in un incontro di wrestling. Poi quando tutto è finito siamo tornati amici