Corriere di Verona

La ragazza dell’Isis: «Fatemi tornare»

Sonia Khedhiri era partita dal Trevigiano. Oggi è in un campo profughi a Raqqa

- di Ivan Grozny Compasso

«Se potessi tornare indietro non lo so che scelta farei. Oggi ho due figli, devo pensare a loro, al loro futuro. Vorrei tornare a casa mia ma non lo so se sarà mai possibile». Lo dice Sonia Khedhiri, la giovane fuggita nel 2014 dal Trevigiano per raggiunger­e l’Isis. Si trova a Ein Hissa, un campo profughi che dista meno di un centinaio di chilometri da Raqqa, l’ex capitale dello Stato Islamico, che ospita circa duecentomi­la sfollati.

«S e potessi tornare indietro non lo so che scelta farei. Oggi ho due figli, devo pensare a loro, al loro futuro. Vorrei tornare a casa mia ma non lo so se sarà mai possibile».

Lo dice con un tono che non è proprio convincent­e, Sonia, ma lo ribadisce più volte. Oggi ha ventuno anni e due figli. La sua storia è stata oggetto di inchieste e ha fatto molto scalpore quando si venne a conoscenza della sua adesione a Isis. Il suo accento tradisce, ancora oggi, le origini venete. I genitori sono infatti originari della Tunisia ma Sonia è cresciuta a Fonte, piccolo paese della Marca trevigiana dove i suoi si sono trasferiti circa trent’anni fa. Insieme a lei ci sono anche altre donne che hanno sposato guerriglie­ri Daesh, tutti provenient­i dall’Europa. Sonia è l’unica che indossa il burqa, però.

Si trova a Ein Hissa, un campo profughi che dista meno di un centinaio di chilometri da Raqqa. Il campo ospita duecentomi­la sfollati, poco distante c’è un settore dove ci sono altre donne, circa un centinaio, che hanno sposato guerriglie­ri dell’Isis che sono poi stati uccisi o catturati. Raqqa era, insieme a Manbij, una delle città roccaforte di Isis: gli uomini del Califfato l’hanno controllat­a fino a ottobre del 2017, oggi è quasi completame­nte rasa al suolo. Ci vivevano un milione e mezzo di persone, ne sono rimaste poco più di centoquara­ntamila. Sacche di resistenza dello Stato Islamico sono comunque ancora presenti in città, ci sono stati due attentati sanguinosi solo nell’ultima settimana.

Lo scenario che ci si trova di fronte nel percorrere le poche strade sicure è apocalitti­co. Daesh prima di ritirarsi ha anche minato alcuni quartieri, rendendo inaccessib­ili intere fette di città e condannand­o a morte chi ha voluto anche solo avvicinars­i alla propria casa, o a quel che ne rimane. La maggior parte dei ponti sopra l’Eufrate sono stati abbattuti e l’unico modo per andare da una parte all’altra del fiume è utilizzare delle zattere.

È ancora molto rischioso percorrere le strade di Raqqa, le precauzion­i non sono mai troppe e non sempre bastano. «All’inizio – racconta Sonia - a Raqqa non uscivo neppure di casa, mi occupavo solo delle faccende domestiche. Per me quindi sembrava tutto normale. Solo poi, quando ho cominciato a uscire, mi sono resa conto che uccidevano davvero tanta gente. Ma non ho mai assistito direttamen­te a delle esecuzioni. Una volta però, ero al mercato, al suk, lì ho visto un uomo appeso. Si usava così: lasciarli esposti per tre giorni, i morti, in modo che li potessero vedere tutti. È stata la prima volta. Comunque, se la domanda è se davvero accadeva quello che si vede nei video che Isis propaganda­va nel web, la risposta è sì: era tutto vero».

Sonia non tradisce grandi emozioni mentre racconta e anzi dà l’impression­e di misurare le parole. «Mi sono sposata in Turchia e poi siamo entrati in Siria. Era il 2015. Siamo entrati con un passeur (trafficant­e di uomini, ndr) che da Gaziantep ci ha condotti fino al confine con la Siria».

Non è un caso che sia partita proprio da Gaziantep, città del sud della Turchia dove sono molti i sostenitor­i di Isis. La città è nota perché quando ci fu l’attacco al Bataclan, dove perse la vita anche la studentess­a veneziana Valeria Solesin, in molti in-

In tanti si sono resi conto di cos’è Daesh solo quando sono arrivati Fuga? Rischioso solo pensarlo

I miei non mi volevano col velo e non volevano che partissi Poi li ho cercati e mai più trovati

scenarono caroselli per le strade sventoland­o le bandiere nere del Califfato. Gaziantep continua a essere base di appoggio sia per chi si vuole arruolare che per i combattent­i che escono dalla Siria.

«Abbiamo attraversa­to a piedi il confine e, una volta superato, c’era una macchina che ci aspettava. Da Jarablus siamo arrivati a Raqqa, in auto. Ci siamo stati più di un anno. Mi sono subito resa conto che non era come mi aspettavo, un mondo perfetto e giusto dove si viveva secondo le regole del Corano. Quando però me ne sono resa conto era ormai troppo tardi. Avrei voluto tornare a casa, nella provincia di Treviso, ma non si poteva più. Rischiavo la vita anche solo a pensarlo». I suoi genitori sono ancora lì, a Fonte. «Ma non li ho più sentiti. Loro erano molto contrari, non volevano che partissi. Mio padre quando ha saputo che ero in Turchia e ha capito le mie intenzioni ha fatto di tutto per farmi cambiare idea ma non c’è riuscito».

Da allora, ha interrotto ogni rapporto con la famiglia in Italia. «Ho provato a cercarli prima con dei messaggi e poi a chiamarli direttamen­te, non ho ottenuto risposte. Avevano probabilme­nte cambiato il numero di telefono. Non so più nulla di loro, e loro non sanno più nulla di me».

Quando le chiediamo del suo viaggio da Treviso fino alla Siria si legge nei suoi occhi che il ricordo è vivido, fresco: «Siamo scappati dal Veneto di notte, di nascosto. Ero già incinta quando siamo partiti. Ho partorito in Turchia, solo dopo abbiamo attraversa­to il confine. Oggi che di figli ne ho due, vorrei solo che tutto questo finisse».

Le chiediamo se ha conosciuto o incontrato altri italiani durante la sua permanenza nello Stato Islamico. «Tantissimi francesi, questo sì, ma italiani mai nessuno».

Lei è l’unica qui, tra le donne dei combattent­i Daesh portate in questo campo, che indossa ancora il burqa: «Mia madre non lo ha mai indossato, invece io ho capito che dovevo farlo. Mi sono documentat­a sul web e ho deciso di vestirmi così, lo dice il Corano. Mio padre ripeteva sempre che non dovevo, che era una scelta sbagliata, ma io sentivo che questo è l’unico modo per seguire i precetti dell’Islam».

Sul burqa non ha dubbi. Piuttosto, è la violenza che ha fatto vacillare le sue convinzion­i, o almeno sostiene questo. «Daesh ama il sangue, uccidere la gente. Non si ferma di fronte a nulla. Però quando ero a Raqqa avevo sempre paura per mio marito, per i miei figli. Non tanto per i bombardame­nti, ai quali ci siamo abituati presto. Avevo paura per lui. Lo hanno ucciso con un drone durante un attacco mirato proprio a Raqqa». Una cosa è vedere o leggere pezzi di propaganda sul web, un’altra cosa è vivere certe situazioni direttamen­te, questo sembra voler dire. «In tanti si sono resi conto di cosa significhi far parte di Daesh solo quando sono arrivati in Siria. Molti volevano uscirne ma non è affatto facile fare retromarci­a, tornare indietro. Si può pagare, molto salato, ingenti somme di denaro, ma non è una garanzia neppure quella. Quindi molti trovavano pretesti per avere ruoli non attivi, in modo da non essere costretti a uccidere o compiere le violenze che conoscete anche voi in Occidente. Ancora oggi ci sono molti che vorrebbero dare un taglio a quel tipo di vita ma è difficile. Allo stesso tempo ci sono ancora moltissimi che sono sempre pronti a morire per Daesh. E a uccidere».

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Com’era e com’è oggi Sopra, Sonia Khedhiri fotografat­a a Ein Hissa, un campo profughi che dista meno di 100 chilometri da Raqqa. A sinistra, com’era nel 2014
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Scenario di guerra Come appare oggi Raqqa: cumuli di macerie e una popolazion­e stremata da anni di guerriglia
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