Dieci anni dopo, Rigoni Stern e la natura salvifica
Nel 2008 scompariva lo scrittore asiaghese. Il ricordo del romanziere Righetto: «Le “opere forestali” hanno una ricchezza inesauribile, rivelano un ritorno salvifico alla natura montana in una dimensione di pace»
Te me manchi, vècio. Dieci anni non sono poi così tanti, eppure se ci fermiamo un istante e ci voltiamo indietro a considerare il tempo trascorso dalla morte di Mario Rigoni Stern, ci sembra passata un’eternità. Questa sensazione, presente soprattutto negli animi di chi lo ha conosciuto e amato personalmente, è oggi più forte che mai, e non soltanto perché egli ha rappresentato e tuttora rappresenta un mondo e un’epoca che, al di là dei nostri affetti e delle nostre nostalgie individuali o collettive, si sono sciolti come neve al sole; si sono estinti culturalmente proprio come sull’arco alpino si stanno estinguendo biologicamente la pernice bianca e la lince. C’è ben di più. Fu maestro di vita, un montanaro cimbro di rara saggezza ed esperienza concreta, capace di pensare con profondo acume, ma anche di dire e fare con coraggio perfino ciò che poteva ritorcerglisi contro perché politicamente scorretto, raro pregio che posseggono solo le persone di grande levatura intellettuale. Inutile dire che un uomo del suo calibro lascia sempre un’eredità che col tempo si fa bene comune: patrimonio letterario e culturale, ma soprattutto morale e spirituale. A tale proposito però, ritengo che il suo lascito più importante risieda essenzialmente nella straordinaria coscienza ecologica da lui incarnata, unita alla consapevolezza del senso del limite. E se è vero che lo scrittore asiaghese è divenuto celebre soprattutto per Il sergente nella neve, va anche detto che gli scritti successivi sono ben più importanti di quanto la critica militante creda, e non vanno affatto relegati ai margini della sua produzione. In quelle che io definisco «opere forestali» vi è infatti una ricchezza inesauribile che non può essere compresa senza considerare il passato dell’autore, cogliendone la biografia che va dalla spensierata fanciullezza fino al definitivo ritorno a baita passando per una delle più tragiche spedizioni belliche italiane. Sono proprio questi i libri che rivelano un ritorno salvifico alla natura montana, in una dimensione di pace ed equilibrio che dona all’autore una straordinaria maturità etica dopo il trauma causato dall’esperienza vissuta sul fronte russo. In questo senso l’opera omnia di Rigoni esprime indubbiamente la massima esperienza di «ecologia letteraria» presente nella produzione italiana contemporanea, offrendo una sua propria visione morale del mondo e una prospettiva inclusiva e solidale che, partendo dal particolare del bosco, si riflette nell’universale umano. Per Mario imparare a vedere in termini diversi la nostra relazione con l’ambiente e il paesaggio (termine caro al suo amico Zanzotto), significava fondamentalmente ridisegnare un nuovo umanesimo, ripartendo dalle parole, che dovevano sempre essere semplici, chiare e buone. Come l’acqua limpida che scaturisce dalle rocce alpine. E c’è un passo preciso del Sergente dal quale prese vita questo soffio filosofico che influenzò poi tutta la sua opera seguente. È la sequenza che narra di quando egli corse a bussare alla porta dell’isba. E quelli che erano considerati i suoi nemici gli aprirono, lo ospitarono e gli diedero da mangiare.
«Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini.
[...] Se questo è successo una volta, potrà tornare a succedere».
È proprio questa l’esperienza commovente che lo porterà poi a elaborare e dar voce a una narrativa dalla quale, oltre all’importanza del senso del limite, emergeranno valori universali ed ecologici senza patrie, senza frontiere e senza tempo. A dieci anni dalla sua morte, credo che abbiamo il dovere di farne rivivere la grande e umile lezione morale, leggendolo e rileggendolo, facendolo conoscere ai più giovani, invitandoli a fare così come fece lui, a riscoprire cioè il silenzio e la meraviglia della montagna, ma soprattutto a non aver mai timore di «bussare alla porta» di qualcuno che si reputa nemico.