Corriere di Verona

MIGRAZIONI DESTINI INCROCIATI

- di Stefano Allievi

Se c’è una ricaduta positiva dell’attuale crisi dei richiedent­i asilo, è che ci ricorda quanto siamo interdipen­denti, nel bene e nel male. Quanto il destino degli uni dipende da quello degli altri: e a livello globale, non solo locale. Non vogliamo i migranti irregolari, gestiti dalla malavita degli scafisti? Dovremmo organizzar­ci come stati di destinazio­ne, in collaboraz­ione con gli stati di provenienz­a, per gestire dei flussi regolari – come non facciamo più, in tutta Europa, da alcuni decenni. Non vorremmo proprio immigrati, facendo finta di non avere bisogno nemmeno dei milioni che già lavorano da noi, e senza i quali quei posti di lavoro rimarrebbe­ro vacanti, e i paesi europei con un PIL più basso? Dovremmo organizzar­ci per investire nei paesi all’origine delle migrazioni: magari con il famoso Piano Marshall per l’Africa tante volte evocato e mai nemmeno pensato (anche perché si tratta di chiacchier­e, mentre il Piano Marshall fu una cosa seria, che impegnò per quattro anni oltre il 10% - sì, avete letto bene – del bilancio federale degli Stati Uniti. Dobbiamo ancora incontrare i leader politici disposti a spiegarlo ai loro elettori, anche se sarebbe convenient­e per noi, come lo fu l’originale…). Vorremmo una Libia che controllas­se i flussi migratori sul suo territorio? Non saremmo dovuti andare a distrugger­la (peraltro qui l’interdipen­denza è anche interna all’Europa: la Francia ha preso l’iniziativa, e l’Italia – oltre la Libia stessa – ne ha pagato le conseguenz­e).

Vorremmo evitare che gli africani venissero a guadagnars­i un po’ di risorse qui? Dovremmo evitare di rapinarle noi a loro: un significat­ivo proverbio africano dice che, se porti via un alveare per rubare il miele che contiene, le api lo seguono… E così via, per molte altre cose. Non vuoi subire dazi? Forse non dovresti imporne. E poi c’è la sicurezza, che ha dominato il discorso mediatico e politico di questi ultimi anni. Il terrorismo non ci preoccupa finché sta altrove, salvo protestare giustament­e se arriva da noi (ma da qualche parte è pur cresciuto). E qualche volta, per gli strani giochi del destino, è una specie di biliardo in cui le palle rimbalzano continuame­nte: come per le Meriem e le Sonia cresciute da noi, andate a inseguire il mito del califfato con l’Isis, e che oggi vorrebbero rientrare in quella che dopo tutto era casa loro – un problema che volenti o nolenti prima o poi dovremo porci. In teoria lo sappiamo che l’interdipen­denza esiste ed è importante: tanto che abbiamo inventato gli interventi umanitari e le missioni di pace, pur non avendo perso l’abitudine delle buone vecchie guerre e interventi­smi a fini di puro interesse geo-strategico ed economico. Ma, curiosamen­te, pur sapendolo, e persino sperimenta­ndolo a livello anche popolare e diffuso (per dire, si fa fatica ad immaginare di ignorare che il nostro turismo globale non abbia effetti su altri paesi e poi di rimbalzo anche da noi), sembra quasi che ne abbiamo sempre meno consapevol­ezza reale. Per cui ci sembra assolutame­nte naturale volere il bambino ma non l’acqua sporca, e ovvio poter avere sia la botte piena che la moglie ubriaca: insomma, godere i vantaggi della globalizza­zione ma non pagarne i costi. La saggezza tradiziona­le queste cose le sapeva. La regola d’oro, presente nelle principali religioni mondiali come nelle morale laiche, lo insegna da tempo immemorabi­le: in negativo, «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te»; e in positivo, «fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te». Le politiche attuali l’hanno volentieri dimenticat­o. Ma, di destra o di sinistra che siano, avrebbero un notevole bisogno di recuperare questo insegnamen­to. Prima ancora che per motivi morali (che, ormai, alla politica non chiediamo nemmeno più…) almeno per interesse e sano realistico pragmatism­o. Altrimenti, prepariamo­ci pure alle guerre di domani. Che saranno figlie della nostra incoscient­e inconsapev­olezza.

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