MIGRAZIONI DESTINI INCROCIATI
Se c’è una ricaduta positiva dell’attuale crisi dei richiedenti asilo, è che ci ricorda quanto siamo interdipendenti, nel bene e nel male. Quanto il destino degli uni dipende da quello degli altri: e a livello globale, non solo locale. Non vogliamo i migranti irregolari, gestiti dalla malavita degli scafisti? Dovremmo organizzarci come stati di destinazione, in collaborazione con gli stati di provenienza, per gestire dei flussi regolari – come non facciamo più, in tutta Europa, da alcuni decenni. Non vorremmo proprio immigrati, facendo finta di non avere bisogno nemmeno dei milioni che già lavorano da noi, e senza i quali quei posti di lavoro rimarrebbero vacanti, e i paesi europei con un PIL più basso? Dovremmo organizzarci per investire nei paesi all’origine delle migrazioni: magari con il famoso Piano Marshall per l’Africa tante volte evocato e mai nemmeno pensato (anche perché si tratta di chiacchiere, mentre il Piano Marshall fu una cosa seria, che impegnò per quattro anni oltre il 10% - sì, avete letto bene – del bilancio federale degli Stati Uniti. Dobbiamo ancora incontrare i leader politici disposti a spiegarlo ai loro elettori, anche se sarebbe conveniente per noi, come lo fu l’originale…). Vorremmo una Libia che controllasse i flussi migratori sul suo territorio? Non saremmo dovuti andare a distruggerla (peraltro qui l’interdipendenza è anche interna all’Europa: la Francia ha preso l’iniziativa, e l’Italia – oltre la Libia stessa – ne ha pagato le conseguenze).
Vorremmo evitare che gli africani venissero a guadagnarsi un po’ di risorse qui? Dovremmo evitare di rapinarle noi a loro: un significativo proverbio africano dice che, se porti via un alveare per rubare il miele che contiene, le api lo seguono… E così via, per molte altre cose. Non vuoi subire dazi? Forse non dovresti imporne. E poi c’è la sicurezza, che ha dominato il discorso mediatico e politico di questi ultimi anni. Il terrorismo non ci preoccupa finché sta altrove, salvo protestare giustamente se arriva da noi (ma da qualche parte è pur cresciuto). E qualche volta, per gli strani giochi del destino, è una specie di biliardo in cui le palle rimbalzano continuamente: come per le Meriem e le Sonia cresciute da noi, andate a inseguire il mito del califfato con l’Isis, e che oggi vorrebbero rientrare in quella che dopo tutto era casa loro – un problema che volenti o nolenti prima o poi dovremo porci. In teoria lo sappiamo che l’interdipendenza esiste ed è importante: tanto che abbiamo inventato gli interventi umanitari e le missioni di pace, pur non avendo perso l’abitudine delle buone vecchie guerre e interventismi a fini di puro interesse geo-strategico ed economico. Ma, curiosamente, pur sapendolo, e persino sperimentandolo a livello anche popolare e diffuso (per dire, si fa fatica ad immaginare di ignorare che il nostro turismo globale non abbia effetti su altri paesi e poi di rimbalzo anche da noi), sembra quasi che ne abbiamo sempre meno consapevolezza reale. Per cui ci sembra assolutamente naturale volere il bambino ma non l’acqua sporca, e ovvio poter avere sia la botte piena che la moglie ubriaca: insomma, godere i vantaggi della globalizzazione ma non pagarne i costi. La saggezza tradizionale queste cose le sapeva. La regola d’oro, presente nelle principali religioni mondiali come nelle morale laiche, lo insegna da tempo immemorabile: in negativo, «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te»; e in positivo, «fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te». Le politiche attuali l’hanno volentieri dimenticato. Ma, di destra o di sinistra che siano, avrebbero un notevole bisogno di recuperare questo insegnamento. Prima ancora che per motivi morali (che, ormai, alla politica non chiediamo nemmeno più…) almeno per interesse e sano realistico pragmatismo. Altrimenti, prepariamoci pure alle guerre di domani. Che saranno figlie della nostra incosciente inconsapevolezza.