Al Romano il progressive rock di Steven Wilson
Quello che è stato definito il «genio» del movimento progressive del nuovo millennio sarà lunedì in concerto al Teatro Romano . «Quando compongo immagino il racconto filmato delle mie canzoni. Dell’Italia amo Fellini e Antonioni»
Cinquant’anni (festeggiati il 3 novembre scorso) sono troppi per non accorgersi di come al pop serva una tirata d’orecchie. «Da piccolo ascoltavo Tears for Fears, Talking Heads, Depeche Mode, Prince… ma penso anche solo a “Thriller” di Michael Jackson (1982, ndr) e a quanto quel disco, seppur di massa, sia ambizioso e profondo. Al pop di oggi manca quel tipo di mainstream creativo. Tutto è “quick”, veloce, deve catturarti in venti secondi. Invece pure nel pop ci vuole tempo». Figlio del progressive, cioè l’antitesi della brevità, il cantante e autore inglese Steven Wilson compone ancora molti brani che sforano i cinque minuti. Non fa eccezione «To the Bone», edito un anno fa, quinto album solista – su una cinquantina in carriera tra Porcupine Tree e altri progetti – ch’è al centro del concerto di lunedì al Teatro Romano (ore 21.15) a chiosa del festival «Rumors». Ha detto che lo sforzo per «To the Bone» è stato mantenere il focus su forma-canzone e melodia, ch’è poi la protagonista del disco: dal vivo, Wilson, lo sforzo qual è?
«Creare un flusso naturale e organico tra musica e immagini. È da quando compongo che di ogni brano immagino subito il racconto filmato. Amo il cinema, di quello italiano Fellini e Antonioni, il cui “Blow Up” è capolavoro di sempre. Nel concerto allora imbastisco una sorta di storia in cui ogni pezzo è interpretato dai visual proiettati alle spalle. Non solo pezzi di “To the Bone” ma pure alcuni vecchi, compresa l’era Porcupine. Il pubblico li ascolterà in quadrifonia, col suono che arriva anche da dietro, come al cinema». Il tema di «To the Bone» è
la verità…
«Cioè qualcosa d’inafferrabile. In molti casi nemmeno esiste, la verità. È filtrata da noi, dell’età, dall’orientamento sessuale, dalle idee politiche. È un concetto astratto. Ed è il grande problema. Penso alle percezioni diverse che abbiamo sul tema dei migranti, all’ordine del giorno pure lì da voi. O a internet come fonte costante di fake news che rendono la verità ancor più difficile da raggiungere».
Un disco pop, «To the Bone», in un mondo del pop che oggi «scava» poco, giusto?
«I Beatles negli anni 60, Bowie nei 70, Prince negli 80, tutta gente che ha spinto il pop oltre. Oggi quel tipo di creatività, ch’era anche prettamente musicale poiché figlia di musicisti, è scomparsa dal mainstream, dove conta soprattutto la produzione. Tutto poi è molto “rassicurante”. E c’è anche un’altra tendenza, quella dei media a marginalizzare il pop che deriva dal rock: è un peccato».
Diceva prima di Fellini e Antonioni: cos’altro le piace dell’Italia? «La sensibilità verso la musica “scura” e malinconica. C’è tanta bellezza in quei tipi di sentimento e atmosfera. Con gli italiani condivido quell’inclinazione lì».
Ultima: l’esperienza della colonna sonora per un videogame, «Last Day of June»?
«Ha ribaltato la mia opinione sui videogiochi. Ero scettico. Della serie: zombie da uccidere, macchine da spingere ai 300 all’ora in pieno centro e poco altro. Invece ho scoperto il lato dello storytelling. Ci sono videogiochi che per trama, scrittura, storia ed emozioni raggiungono livelli altissimi. Credo che in futuro saranno come il grande cinema».