Janeczek e la storia di Gerda Taro fotoreporter che creò il mito Capa
LA CINQUINA DEL CAMPIELLO «La ragazza con la Leica» il racconto tra ricostruzione storica e fiction di un personaggio unico del Novecento, eroina impavida, morta nella guerra di Spagna
Robert Capa l’ha creato lei. Sia il nome (fittizio, ma che suona bene), sia il mito. Con quello pseudonimo le fotografie di entrambi si vendevano meglio. Insomma, Gerda Taro giovane fotoreporter di guerra, travolta e uccisa da un carro armato in Spagna e morta in un ospedale da guerra, non e’ stata solo la musa e l’amore del famosissimo Capa, ma molto di più. Celebrato lui per i reportage da cinque diversi conflitti bellici, quasi dimenticata lei.
Ci pensa Helena Janeczeck a riscoprire e restituire viva, palpitante, carismatica, la figura di Gerda Taro e la sua vita, nel romanzo La ragazza
con la Leica (Guanda, 332 pagine, 18 euro). Il libro è tra i cinque finalisti al Premio Campiello di Confindustria Veneto, da poco ha vinto il Premio Strega e già aveva conquistato il riconoscimento del Bagutta 2018.
Bionda, minuta, seducente, raffinata, ragazza borghese infiammata d’ideali e passione per la fotografia, Gerda morì a 26 anni il 25 luglio 1937 sul fronte della guerra civile spagnola.
Il romanzo di Helena Janeczeck, con sguardo retrospettivo che parte dagli anni ‘60 e corre indietro fino alla Germania pre-hitleriana e all’Europa antifascista, racconta Gerda Taro attraverso gli occhi e le testimonianze degli amici, mescolando realtà e ricerca storica molto rigorosa (il libro ha richiesto quasi sei anni di lavoro), a elementi di finzione che lo rendono non autobiografia, ma vero e proprio romanzo.
Come non innamorarsi della temeraria Gerda, tutta pensiero e azione? Ne erano innamorati tutti, infatti. Riempiva e migliorava la vita di quelli che conosceva.
Un ritratto che Janeczeck rende travolgente.
Altro che «donna di» Capa, era una giovane indipendente, creativa, grondava talento, voleva esserci dove la storia costruiva nuove prospettive, sempre sulla linea di guerra, per capire i conflitti e immortalarli.
Sembrava uscita da una rivista di alta moda, charmant ed elegante, eppure si trascinava dietro fotocamera, cinepresa, cavalletto per chilometri e chilometri sul fronte di guerra, scattava a raffica, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri. Gran parte delle fotografie inizialmente attribuite a Capa, sono sue. Potenti, evocative, attimi di storia.
E sua era stata l’idea di fondere i rispettivi nomi, Gerta Pohorylle (lei) e Endre Friedmann (lui) nello pseudonimo di Robert Capa, più suggestivo per vendere alle agenzie fotografiche. Ecco che così molte delle loro foto si mescolarono e furono attribuite solo a lui.
Capa non era ancora nessuno quando incontrò Gerda, tanti sogni ma poco coraggio per realizzarli. Con lei cambiò il nome, ma non solo. Iniziò a osare e sperimentare nella fotografia. Gerda accendeva la miccia di coraggio e creatività in chi amava.
Fuggita dalla persecuzione nazista, Gerda Taro si era lasciata alle spalle la vita di Stoccarda e gli studi a Lipsia per scappare a Parigi giovanissima, tra artisti e militanti comunisti. Sete di libertà e scintille creative l’hanno guidata e sono state trascinanti anche per chi l’ha conosciuta: Willy Chardack, Georg Kuritzkes, l’amica Ruth Cerf. Dai loro dialoghi e dagli avvenimenti di quegli anni, tra lettere, conversazioni, arte, amore, emerge chi era Gerda, le sue imprese.
Il romanzo di Helena Janecczek si apre con un’istantanea d’epoca, in cui sono ritratti Gerda e Capa: «Sembrano felici e sono giovani, come si addice agli eroi. E comunque non appaiono eroici per nulla. Colpa della risata che chiude i loro occhi e mette a nudo i denti, un riso non fotogenico, ma cosi’ schietto da renderli stupendi. Lui ha una dentatura da cavallo e la esibisce fino alle gengive. Lei no, ma il suo canino spicca sul vuoto del dente successivo, seppure con la grazia delle piccole imperfezioni attraenti… La rivoluzione e’ un giorno qualsiasi in cui si riesce a fermare il golpe che vuole soffocarla, ma senza rinunciare a una tregua di festa».
Il racconto che ne emerge è la storia epica di una donna ribelle e trascinante, unica nel Novecento, decisa a testimoniare la Storia con la «S» maiuscola, a ogni costo.
Tanto che le sue ultime parole furono per chiedere se si erano salvati i rullini scattati sul fronte. Ma è anche una vicenda d’amore. E ripercorre i fatti di quell’epoca, tanto simile a quella contemporanea, tra crisi economica, impoverimento delle famiglie, dramma personale e sociale sempre più diffuso.