Paolini, ricorsi e destini sotto le stelle
Dopo l’incidente stradale di Verona, il successo della rilettura di Rigoni Stern
Il Monte Tomba basterebbe da sé; lassù in cima, sotto le stelle e nel riverbero della luna rossa, è come se aleggiassero ancora le anime dei 24mila soldati italiani, che esattamente cento anni fa, nell’ultima stagione della Grande Guerra, su questi pendii persero la vita. Aggiungere, perciò, poteva non essere compito semplice. Invece.
Invece quella del drammaturgo Francesco Niccolini — portare su questa vetta intrisa di sangue il suo Senza vincitori nè vinti, tratto dalla struggente Storia
di Tönle di Mario Rigoni Stern e affidarlo alla coppia Marco Paolini-Simone Cristicchi — è stata intuizione vincente. Non sovrastruttura, ma lieve soffio sulla brace a riaccendere una lacerazione profonda. Ricorsi, storia, destino (sì, anche il terribile destino toccato in sorte a Paolini, riapparso su questo monte per la prima volta dopo l’incidente stradale di Verona che ha causato la morte di una donna), tutto è parso contribuire al completamento di un incastro raro, sottile, magico. Una calda bolla di emozione lievitante verso l’alto, come tutte quelle anime volate via su questi prati.
La fortuna, quindi, è stata esserci — nella seconda e ultima recita — insieme ad altre tremila persone (duemila circa nella rappresentazione d’esordio). Un’ora e mezzo, poco più di recital: un canone a due voci — Paolini appunto e il sorprendente Cristicchi — che ha lentamente dipanato l’incrocio di due vite annodate lungo i quattro anni della Battaglia, quella del canuto Tönle, pastore geloso della sua terra e delle sue bestie e quella del giovane barbiere del paese, amico del vecchio, che a 21 anni parte per il fronte (peccato solo per la sbrodolata finale sulla guerra dei giorni d’oggi, quella contro la Terra). Nè vincitori, nè
vinti: i due protagonisti, come tutti i «nessuno» degli eserciti di perduti. «Cosa ho contro i miei nemici? — si interroga il giovane barbiere, che vede cadere amici, compagni e matricole —, ci hanno fatto diventare spietati ma era l’unica possibilità di avere una via d’uscita».
E alle spalle dei due narratori il coro, i 45 elementi del Valcavasia; un coro vero, greco vorremmo quasi dire. Che in alcuni momenti è parso caricarsi sulle spalle uno sforzo umano (sì,
umano): sostenere Paolini, nel suo sofferto calvario. Paolini, appunto: parso all’inizio teso, contratto (qualche battuta fuori tempo), talvolta emozionato; ma poi, interamente dentro alla storia. Viscerale e profondo, come solo lui forse sa essere.
E alla fine Paolini e Cristicchi, che prima dello spettacolo non si conoscevano, ma che l’orazione ha legato in una solida amicizia, hanno salutato stretti mano nella mano. Un po’ come quei fanti che nel ‘18 scendevano dai monti per sperare, come scriveva Rigoni Stern, che «qualcosa poi ricominciasse».