Corriere di Verona

Gioventù in barca, ricordi di una notte a motore spento tra i silenzi della laguna

- di Giovanni Montanaro

Il motore si spense all’improvviso. Senza quel borbottio, improvvisa­mente ci accorgemmo del silenzio intorno e dell’odore delle sigarette, che la velocità spazzava via. «Benone» disse qualcuno. La laguna pareva ferma, ma piccole onde ci ingannavan­o; quella deriva sembrava una femmina, o un pitone, qualcosa che non conoscevam­o. Il timoniere provò a riaccender­e. Per far partire, bisognava tirare forte la corda di avvio. Ci provò: due volte, tre volte, dieci volte. Lui, che non bestemmiav­a mai, bestemmiò. Nessuno fiatò. Il silenzio si fece più intenso, e anche gli odori. Avevamo quindici anni, e venne cosí, la paura, e in fondo non ci spaventò.

Eravamo andati lontani, fino a Pellestrin­a, con una vecchia sampierota. Prendeva un po’ d’acqua, ma reggeva. Era bella, verde e rossa, con una striscia gialla. Un nostro amico aveva avuto dal padre, per quell’estate, il permesso di usarla. Era il nostro passatempo, la nostra divinità. La prendevamo ogni giorno. Come sempre capita nell’adolescenz­a, ci parve all’improvviso di aver capito tutto quello che un attimo prima neanche pensavamo esistesse. All’improvviso, Venezia ci era diventata chiara. Era l’acqua, il suo trucco e il suo alimento. Era l’acqua, il segreto ancestrale che dovevamo imparare e tramandare. Erano i bagni in laguna, lontani dalle capanne del Lido. Erano le isole disabitate, agricole; Sant’Erasmo, i Murazzi. Il vino da bere, i tramonti da cercare, la città da guardare rovescia, giusta, con le facciate e sotto i ponti. Era tutto quello che gli altri, i turisti, non potevano sapere. Ogni giorno prendevamo la barca. Avevamo un motore lento, il borbottio di un mondo antico. Intorno a noi, i motoscafi di plastica sfrecciava­no a velocità quadrupla; erano brutti, non ci importavan­o. Avevano la nostra età, quegli altri, tanti li conoscevan­o. Stupidi, ci sembravano, a correre così, ma un poco invidiavam­o quella gioventù diversa, priva di scrupoli, piena, così vicina alla morte.

Quel giorno eravamo andati fino agli Alberoni per un bagno. Dovevamo tornare prima del tramonto, si erano raccomanda­ti con noi i nostri vecchi. La barca non aveva le luci obbligator­ie. Non avevamo una torcia, era pericoloso al buio. Quel giorno, peró, qualcuno propose di fermarsi a mangiare fuori. Nessuno si oppose. Cenammo veloce, bevemmo poco. Non ci dicevamo nulla, ma sapevamo, che ci aspettava l’impresa, la salita al Monte Bianco. Montammo in barca silenziosi, religiosi. Nessuno disse di aspettare l’indomani, ormeggiare lí. Ci sentivamo anche noi, per una volta, coraggiosi, stupidi come quegli altri. Ci piaceva. Partimmo. Non c’era nessuno intorno a noi. Provammo a illuminare un poco con i telefonini, quelli di una volta; serviva a niente. Poi prendemmo confidenza. Uno si accese una sigaretta. Un altro gliene chiese una. Tutto sarebbe andato bene. Acceleramm­o. Il motore faticava, era vecchio. Tiravamo per finire presto, ci pareva di vivere. Poi, il motore, senza un colpo, si fermò. La laguna era incantevol­e. L’acqua era torbida, ruvida come una lingua. Il cielo chiaro. Il motoscafo arrivò all’improvviso, dal Lido, con un rombo lontano che cresceva rapidissim­o. Veniva verso di noi, dritto per quel canale. Uno di noi urlò. Rimanemmo immobili, non potevano vederci. Non ci prese il panico, ci pareva il destino, una tigre, quel barchino folle, troppo veloce. Non so come accadde. Ci schivò all’ultimo, come fosse sazio, avesse deciso di risparmiar­ci. Se ne andò. Il nostro motore ripartì, senza nessun motivo.

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