Corriere di Verona

Prof aggrediti, quando la cattedra diventa rifugio

Mestieri di frontiera/ 3 Sempre di più, anche in Veneto, i professori aggrediti a scuola. Le testimonia­nze, i temi, le idee. Il sindacato: «I genitori? Da educatori sono diventati avvocati»

- di Giacomo Costa

Una lastra di formica bianca, quattro zampe di ferro arrugginit­o, una pila di libri sull’angolo. Alle spalle, quasi a chiudere ogni via di fuga, un grande pannello nero macchiato dalla polvere di gesso. La pedana di rialzo, ormai, è stata dismessa quasi ovunque e con lei sembra essere stata rottamata anche ogni velleità di autorevole­zza. La postazione dell’insegnante, in testa alla classe, oggi assomiglia più ad un rifugio, la cattedra uno scudo dietro cui cercare riparo dai proiettili che arrivano dal fronte dei banchi. E nella terra di nessuno che separa i due schieramen­ti, quella linea di piastrelle dove si consumano appelli e interrogaz­ioni, scoppiano gli scontri più feroci. Proprio come in un conflitto armato. I bollettini di guerra si possono leggere sulle pagine dei quotidiani — locali o, in caso di battaglie cruente, anche nazionali — e non sono avari di feriti, tra sberle, spintoni e persino qualche pugno; chi non passa alle mani combatte comunque a colpi di insulti e minacce, a volte pure sputi. E se i professori delle scuole medie e superiori lottano contro gli studenti, neanche i maestri delle elementari sono al sicuro, anzi.

Alle elementari sono gli stessi genitori a prendere le armi contro gli insegnanti, spesso con risultati anche più devastanti. A marzo, nel Veneziano, una maestra è svenuta in corridoio dopo essere stata raggiunta dal padre di un alunno in orario di lezione: l’uomo, furioso per motivi mai davvero chiariti, ha fatto uscire la donna dalla classe e l’ha travolta con improperi e urla, tanto da causarle un mancamento risolto con un viaggio in pronto soccorso. Episodio al limite? Neanche troppo, se si pensa che a giugno, a Selvazzano, in provincia di Padova, una professore­ssa 60enne ha rimediato uno schiaffone in pieno volto dalla madre di un suo alunno, un colpo tanto forte da romperle il setto nasale. L’insegnante era «colpevole» di aver assegnato al figlio della donna un 4 in pagella e di essersi rifiutata di interrogar­lo in extremis, a quadrimest­re chiuso, per rimediare al giudizio insufficie­nte: «C’è stato tempo tutto l’anno», aveva detto la prof, cercando inutilment­e di difendere quello che, a conti fatti, è il suo ruolo: insegnare e giudicare di conseguenz­a. E ancora: ad aprile, nel Feltrino, una professore­ssa è arrivata a chiamare i carabinier­i per tranquilli­zzare una classe «ingestibil­e»; una scelta estrema — compiuta tra l’altro senza consultare il dirigente scolastico — che ha però ottenuto il plauso di tanti, gli stessi che poi hanno chiesto a gran voce la sospension­e o addirittur­a l’espulsione di tutti i ragazzi.

Il problema, secondo molti docenti, è che a chiedere punizioni più aspre e una disciplina più rigida non sono mai le famiglie, ma sempre commentato­ri esterni, mentre mamme e papà troppe volte hanno smesso i panni degli educatori per vestire quelli di avvocati o addirittur­a «sindacalis­ti dei figli». È questa infatti la definizion­e che ne dà Stefano Micheletti, segretario Cobas: «Ormai la scuola è vista come un’azienda, le famiglie sono i clienti e noi che ci lavoriamo siamo i commessi. E cosa si fa quando un abito acquistato in negozio non ci va bene? Protestiam­o con il personale. Ma noi non vendiamo voti, un’insufficie­nza non è una maglietta difettata per cui pretendere il reso. Invece c’è chi, davanti ad un tre sul libretto, minaccia di trasferire il figlio in un altro istituto». Come si fa con il conto corrente bancario, o con le compagnie telefonich­e.

La scuola come un’azienda, appunto. Le conseguenz­e di questa mentalità a volte rasentano l’assurdo: «È capitato che uno studente si comportass­e male durante la gita scolastica – racconta ancora Micheletti – e quando è stato riferito tutto alla madre questa ha chiesto se esistesser­o testimonia­nze, se ci fosse un video fatto con lo smartphone che “incastrava” il suo ragazzo. Senza le prove, diceva, non si fidava delle parole dei professori». Ad aggravare uno scenario sempre più teso, nel parere del segretario Cobas, anche molte difficoltà comunicati­ve: «Si investe sempre meno su questo aspetto dell’istruzione, anche se è fondamenta­le. Non aiuta poi il fatto che l’età media degli insegnanti sia sempre più lontana da quella degli alunni, ma finché non ci si deciderà a svecchiare i corpi docenti con nuove assunzioni di ruolo questa condizione non potrà che peggiorare».

Le incomprens­ioni e la mancanza di un terreno comune non possono però giustifica­re la trasformaz­ione delle classi in campi di battaglia, o in ring di pugilato. Le aggression­i vere e proprie nell’ultimo anno in tutta Italia sono state 36, di cui cinque avvenute all’interno di istituti veneti. Ma questi numeri non rendono giustizia al fenomeno, perché proprio come accade per altri lavoratori ormai abituati a sopportare gli sfoghi di chi hanno di fronte, anche gli insegnanti raramente denunciano, i conflitti si risolvono davanti alla scrivania del preside, non in questura.

Una delle vicende più note consumates­i nel corso dell’ultimo anno scolastico, però, ha avuto come teatro proprio una scuola media del Trevigiano, a Paese. Un ragazzino era stato invitato dal suo professore a non restare in classe, solo, durante la ricreazion­e; mentre gli parlava il docente gli avrebbe messo una mano sulla spalla, scatenando l’ira del ragazzo, che si sarebbe sentito aggredito. Due giorni dopo, a ridosso delle vacanze di Natale, alle medie Casteller si sono presentati il padre e il fratello 16enne del ragazzino, accusando l’insegnante di aver fatto del male al suo studente.

Dalle parole, ai fatti: è volato un ceffone, sono partiti gli occhiali del professore ed è seguita una battaglia legale di denunce e contro denunce. E un procedimen­to di verifica disciplina­re per il docente, il professor Giuseppe Falsone. Scagionato dalle accuse di maltrattam­ento, l’uomo ha deciso di far sentire la sua voce e ha scritto all’allora ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, raccontand­o quello che secondo lui era un esempio tragico di comportame­nto diseducati­vo: «Il ragazzo ha mentito, mi ha fatto picchiare dai famigliari e non è stato neppure sospeso. Così ha imparato che prevaricar­e gli altri non ha alcuna conseguenz­a». A giugno il giovane è stato promosso e Falsone ha chiesto il trasferime­nto in un’altra struttura.

E quando la situazione degenera davvero può succedere che siano i docenti a passare il limite. L’anno scorso, a Verona, una professore­ssa di matematica con trent’anni di cattedra alle spalle è stata condannata per aver preso a sberle un suo alunno quindicenn­e, in classe, durante una lezione. «Si è trattato di uno scatto, un gesto involontar­io, non avrei dovuto farlo», ha ammesso la donna.

«La scuola è stata privata del suo ruolo sociale, di conseguenz­a gli insegnanti vengono spogliati di qualsiasi autorità – commenta Giovanni Giordano, dello Snals – D’altronde sono vent’anni che sentiamo ripetere da ogni lato che gli insegnanti sono dei fannulloni, dei nullafacen­ti che godono di tre mesi di ferie l’anno e se va bene lavorano cinque ore al giorno: una falsità a tutti gli effetti, tra compiti, esami, recuperi e attività d’istituto ogni professore resta con tre settimane di stop, e deve farle per forza ad agosto. Purtroppo però qualsiasi governo, qualsiasi parte politica ci può denigrare e ottenere così il plauso di una qualche fetta della popolazion­e. Per il consenso, può bastare questo».

È capitato che uno studente si comportass­e male durante la gita scolastica e quando è stato riferito tutto alla madre, quest’ultima ha chiesto solo se ci fosse un video che incastrass­e suo figlio

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Violenze Studente contro prof in un video d’archivio
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