Prof aggrediti, quando la cattedra diventa rifugio
Mestieri di frontiera/ 3 Sempre di più, anche in Veneto, i professori aggrediti a scuola. Le testimonianze, i temi, le idee. Il sindacato: «I genitori? Da educatori sono diventati avvocati»
Una lastra di formica bianca, quattro zampe di ferro arrugginito, una pila di libri sull’angolo. Alle spalle, quasi a chiudere ogni via di fuga, un grande pannello nero macchiato dalla polvere di gesso. La pedana di rialzo, ormai, è stata dismessa quasi ovunque e con lei sembra essere stata rottamata anche ogni velleità di autorevolezza. La postazione dell’insegnante, in testa alla classe, oggi assomiglia più ad un rifugio, la cattedra uno scudo dietro cui cercare riparo dai proiettili che arrivano dal fronte dei banchi. E nella terra di nessuno che separa i due schieramenti, quella linea di piastrelle dove si consumano appelli e interrogazioni, scoppiano gli scontri più feroci. Proprio come in un conflitto armato. I bollettini di guerra si possono leggere sulle pagine dei quotidiani — locali o, in caso di battaglie cruente, anche nazionali — e non sono avari di feriti, tra sberle, spintoni e persino qualche pugno; chi non passa alle mani combatte comunque a colpi di insulti e minacce, a volte pure sputi. E se i professori delle scuole medie e superiori lottano contro gli studenti, neanche i maestri delle elementari sono al sicuro, anzi.
Alle elementari sono gli stessi genitori a prendere le armi contro gli insegnanti, spesso con risultati anche più devastanti. A marzo, nel Veneziano, una maestra è svenuta in corridoio dopo essere stata raggiunta dal padre di un alunno in orario di lezione: l’uomo, furioso per motivi mai davvero chiariti, ha fatto uscire la donna dalla classe e l’ha travolta con improperi e urla, tanto da causarle un mancamento risolto con un viaggio in pronto soccorso. Episodio al limite? Neanche troppo, se si pensa che a giugno, a Selvazzano, in provincia di Padova, una professoressa 60enne ha rimediato uno schiaffone in pieno volto dalla madre di un suo alunno, un colpo tanto forte da romperle il setto nasale. L’insegnante era «colpevole» di aver assegnato al figlio della donna un 4 in pagella e di essersi rifiutata di interrogarlo in extremis, a quadrimestre chiuso, per rimediare al giudizio insufficiente: «C’è stato tempo tutto l’anno», aveva detto la prof, cercando inutilmente di difendere quello che, a conti fatti, è il suo ruolo: insegnare e giudicare di conseguenza. E ancora: ad aprile, nel Feltrino, una professoressa è arrivata a chiamare i carabinieri per tranquillizzare una classe «ingestibile»; una scelta estrema — compiuta tra l’altro senza consultare il dirigente scolastico — che ha però ottenuto il plauso di tanti, gli stessi che poi hanno chiesto a gran voce la sospensione o addirittura l’espulsione di tutti i ragazzi.
Il problema, secondo molti docenti, è che a chiedere punizioni più aspre e una disciplina più rigida non sono mai le famiglie, ma sempre commentatori esterni, mentre mamme e papà troppe volte hanno smesso i panni degli educatori per vestire quelli di avvocati o addirittura «sindacalisti dei figli». È questa infatti la definizione che ne dà Stefano Micheletti, segretario Cobas: «Ormai la scuola è vista come un’azienda, le famiglie sono i clienti e noi che ci lavoriamo siamo i commessi. E cosa si fa quando un abito acquistato in negozio non ci va bene? Protestiamo con il personale. Ma noi non vendiamo voti, un’insufficienza non è una maglietta difettata per cui pretendere il reso. Invece c’è chi, davanti ad un tre sul libretto, minaccia di trasferire il figlio in un altro istituto». Come si fa con il conto corrente bancario, o con le compagnie telefoniche.
La scuola come un’azienda, appunto. Le conseguenze di questa mentalità a volte rasentano l’assurdo: «È capitato che uno studente si comportasse male durante la gita scolastica – racconta ancora Micheletti – e quando è stato riferito tutto alla madre questa ha chiesto se esistessero testimonianze, se ci fosse un video fatto con lo smartphone che “incastrava” il suo ragazzo. Senza le prove, diceva, non si fidava delle parole dei professori». Ad aggravare uno scenario sempre più teso, nel parere del segretario Cobas, anche molte difficoltà comunicative: «Si investe sempre meno su questo aspetto dell’istruzione, anche se è fondamentale. Non aiuta poi il fatto che l’età media degli insegnanti sia sempre più lontana da quella degli alunni, ma finché non ci si deciderà a svecchiare i corpi docenti con nuove assunzioni di ruolo questa condizione non potrà che peggiorare».
Le incomprensioni e la mancanza di un terreno comune non possono però giustificare la trasformazione delle classi in campi di battaglia, o in ring di pugilato. Le aggressioni vere e proprie nell’ultimo anno in tutta Italia sono state 36, di cui cinque avvenute all’interno di istituti veneti. Ma questi numeri non rendono giustizia al fenomeno, perché proprio come accade per altri lavoratori ormai abituati a sopportare gli sfoghi di chi hanno di fronte, anche gli insegnanti raramente denunciano, i conflitti si risolvono davanti alla scrivania del preside, non in questura.
Una delle vicende più note consumatesi nel corso dell’ultimo anno scolastico, però, ha avuto come teatro proprio una scuola media del Trevigiano, a Paese. Un ragazzino era stato invitato dal suo professore a non restare in classe, solo, durante la ricreazione; mentre gli parlava il docente gli avrebbe messo una mano sulla spalla, scatenando l’ira del ragazzo, che si sarebbe sentito aggredito. Due giorni dopo, a ridosso delle vacanze di Natale, alle medie Casteller si sono presentati il padre e il fratello 16enne del ragazzino, accusando l’insegnante di aver fatto del male al suo studente.
Dalle parole, ai fatti: è volato un ceffone, sono partiti gli occhiali del professore ed è seguita una battaglia legale di denunce e contro denunce. E un procedimento di verifica disciplinare per il docente, il professor Giuseppe Falsone. Scagionato dalle accuse di maltrattamento, l’uomo ha deciso di far sentire la sua voce e ha scritto all’allora ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, raccontando quello che secondo lui era un esempio tragico di comportamento diseducativo: «Il ragazzo ha mentito, mi ha fatto picchiare dai famigliari e non è stato neppure sospeso. Così ha imparato che prevaricare gli altri non ha alcuna conseguenza». A giugno il giovane è stato promosso e Falsone ha chiesto il trasferimento in un’altra struttura.
E quando la situazione degenera davvero può succedere che siano i docenti a passare il limite. L’anno scorso, a Verona, una professoressa di matematica con trent’anni di cattedra alle spalle è stata condannata per aver preso a sberle un suo alunno quindicenne, in classe, durante una lezione. «Si è trattato di uno scatto, un gesto involontario, non avrei dovuto farlo», ha ammesso la donna.
«La scuola è stata privata del suo ruolo sociale, di conseguenza gli insegnanti vengono spogliati di qualsiasi autorità – commenta Giovanni Giordano, dello Snals – D’altronde sono vent’anni che sentiamo ripetere da ogni lato che gli insegnanti sono dei fannulloni, dei nullafacenti che godono di tre mesi di ferie l’anno e se va bene lavorano cinque ore al giorno: una falsità a tutti gli effetti, tra compiti, esami, recuperi e attività d’istituto ogni professore resta con tre settimane di stop, e deve farle per forza ad agosto. Purtroppo però qualsiasi governo, qualsiasi parte politica ci può denigrare e ottenere così il plauso di una qualche fetta della popolazione. Per il consenso, può bastare questo».
È capitato che uno studente si comportasse male durante la gita scolastica e quando è stato riferito tutto alla madre, quest’ultima ha chiesto solo se ci fosse un video che incastrasse suo figlio