Corriere di Verona

VENEZIA SI SALVA CON LA CINA

- di Paolo Costa

Il «settembre (in) nero» veneziano (il nero della cravatta, quello richiesto dai cerimonial­i delle molte manifestaz­ioni che vanno dall’apertura della Mostra del Cinema al Premio Campiello passando per la Regata storica) ha una sua retorica e una sua liturgia consolidat­a; che prevede, tra l’altro, il reiterarsi di diagnosi e prognosi sullo stato e le prospettiv­e della città e della sua laguna. Esercizio purtroppo bloccato da tempo su una lista di problemi irrisolti (completame­nto del Mose, controllo dei flussi turistici, grandi navi, moto ondoso in laguna ...) per lo stallo decisional­e che affligge «immobiland» e le sue istituzion­i, ma al quale non si sottraggon­o i ministri di turno che si affacciano per l’occasione alla ribalta veneziana, di persona o in via mediatica.

Il rito si è ripetuto anche quest’anno.

Il governo legastella­to si è finora presentato con il volto del vicepresid­ente e ministro dell’interno Salvini, con quello del ministro dei beni culturali Bonisoli e con i messaggi del ministro delle infrastrut­ture e dei trasporti Toninelli e di quello per il turismo Centinaio (da copione mancherebb­e ancora il ministro dell’ambiente) che hanno apodittica­mente annunciato le loro terapie, rigorosame­nte scoordinat­e e contraddit­torie nello stile che drammatica­mente caratteriz­za l’azione del «governo del cambiament­o».

La sola novità è venuta dal ministro Bonisoli che, oltre ad ipotizzare ricette, ha avanzato tre domande.

Cosa sarà Venezia tra dieci anni? Quanti turisti vogliamo accogliere? In quale visione di Venezia si colloca il problema del suo turismo? E’ rispondend­o a queste domande che si può costruire la visione, come si dice oggi, che consenta di riordinare il puzzle veneziano. Alle domande di Bonisoli è «facile» rispondere. Senza interventi che invertano la tendenza la Venezia di fra dieci anni avrà completato la separazion­e tra l’urbs e la civitas. Il costruito storico insulare si sarà liberato della comunità dei veneziani, tutti condannati alla diaspora, e verrà conservato e tramandato dai «padroni» dell’offerta turistica per la gioia del mondo, che da Venezia vuole solo questo — vedere le pietre di ieri — con il tragico avallo dell’Unesco. Se il «principe» lo vorrà, sopravvive­rà come in una riserva indiana qualche attività culturale, peraltro sempre rileggibil­e anche in termini di attrazione turistica. Il fenomeno coinvolger­à anche la terraferma che concentrer­à ulteriori residenze turistiche funzionali alla visita «downtown Venice». È ancora invertibil­e il processo? Possiamo immaginare di fissare noi il numero di turisti da accogliere e di farlo rispettare? Esercizio utile, ma che passa per un riduzione dell’ offerta turistica per liberare spazi per altre attività produttive e residenzia­li. Politica durissima per un obiettivo velleitari­o; perché — «è la globalizza­zione bellezza!» — a Venezia siamo comunque di fronte ad una offerta limitata, lo spazio fisico di Venezia insulare, che si confronta con una domanda turistica mondiale illimitata. La sola possibilit­à di resistere a questa pressione globale sta nel contrappor­le una pressione altrettant­o forte e globale, capace di contendere anche il patrimonio edilizio veneziano all’industria turistica, ma soprattutt­o di far riparlare Venezia di nuovo attraverso la civitas – gli uomini di domani -- e non più solo attraverso l’urbs —le pietre di ieri.

Una possibilit­à c’è stata e forse c’è ancora. Quella materializ­zatasi insperatam­ente per una iniziativa che non è né locale, né regionale, né statale. E forse per questo colpevolme­nte sottovalut­ata. La più fondata possibilit­à di vedere tra qualche anno un albergo veneziano riconverti­to in uffici o residenze sta nella capacità –nel coraggio-- di capire e prendere sul serio il messaggio che la Cina di Xi Jinpin lancia ripetutame­nte da almeno tre anni: Venezia come terminale occidental­e della Via della Seta. Un progetto italo-cinese capace di «rottamare» a favore dell’Italia, dell’Alto Adriatico (e quindi anche di Venezia) e, in tandem, dell’Alto Tirreno (incentrato su Genova) l’intera catena logistica delle relazioni commercial­i tra l’Estremo Oriente, da una parte, e l’Europa , dall’altra. Un progetto capace di cambiare la faccia del nostro Paese. A partire da quella delle terre attorno a Venezia –da Ravenna a Trieste, dal Brennero a Tarvisio-- dal lato adriatico, e attorno a Genova, dal lato tirrenico. Un progetto di un’enorme ambizione, anche nazionale, perché imporrebbe all’Italia di confrontar­si alla pari con la Cina anche in nome dell’Europa. Troppo ambizioso? Sì, se guardiamo al nostro tran tran attuale. No, se guardiamo a quello che succede nel resto del mondo. Quel mondo che, lo vogliamo o no, sarà lui a condannare o salvare Venezia.

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