«Questo festival è medicina dall’intolleranza portiamolo a scuola e nelle stanze della politica»
«Ci sono due modi di guardare a questo festival. Uno è nostalgico, romantico. L’altro è più attuale: figli del passato, i giochi tradizionali c’insegnano a convivere e ad annullare i conflitti del presente. Io credo che una persona insofferente verso l’altro, e quando dico “l’altro” penso anche ai migranti, possa trasformarsi anche solo dopo un’ora di Tocatì». Lungadige San Giorgio, lì vicino c’è la Cucina del festival e tra i tavoli siede Pere Lavega, presidente dell’Etsga, l’associazione europea degli sport e dei giochi tradizionali, settanta realtà in tutto il continente, una piccola Europa nell’Europa che gioca e che guarda al Tocatì come a una bussola: «Se pensiamo a durata nel tempo (16esima edizione, ndr) e chiarezza di idee, non c’è un altro festival così». C’è un’idea nella testa di Lavega: «Portare il Tocatì nelle aule di scuola e magari in quelle della politica». Perché? «Perché gran parte dei giochi tradizionali non si basa sulla performance ma sul processo relazionale che il gioco instaura. L’avversario non è un nemico, semmai una persona che ti è vitale perché senza di lui non giocheresti. E come nelle democrazie, per giocare ci sono regole da seguire». La prima idea è fattibile, la seconda meno e Lavega ci ride su: «Sarebbe bello vedere Salvini giocare allo s-cianco con un migrante, ma intanto possiamo e dobbiamo pensare alle scuole. Durante un’ora di matematica, ad esempio, quante interazioni si sviluppano coi compagni? Poche. Qui al Tocatì 2018 abbiamo fatto incontrare gli studenti veronesi dell’istituto Calabrese-Levi di San Pietro in Cariano con studenti portoghesi e francesi, è stato osservato il momento del gioco e s’è visto che, nonostante non si fossero mai visti prima, tra loro scattava almeno un’interazione al minuto. Quei ragazzi sono stati cambiati dal gioco». Dal singolare al plurale. «Sì. Perché il gioco porta il singolo dentro la collettività. Del resto questi giochi nascono dalle comunità. E delle comunità ci raccontano la storia. Giocare non è scontro, ma incontro».