Export, le parole della crescita
Pianificazione, capacità di adattamento, attenzione al mercato i primi segreti: «Ma soprattutto la capacità di perseverare»
Andare all’estero? «Una questione più di metodo che di dimensione». È questo uno dei segreti-chiave svelati ieri dagli esperti nel convegno.
Perseverare non è sempre diabolico. Almeno non quando si parli di espansione sui mercati esteri e l’azienda ha meditato a lungo tutti i passi del cammino. La suggestione spunta dalla ricerca sugli «Aspetti rilevanti dei processi di internazionalizzazione» di Diego Campagnolo, docente di Organizzazione aziendale all’Università di Padova e direttore scientifico del master in Business Administration al Cuoa di Altavilla Vicentina, presentata ieri a Padova durante l’evento di Corriere Imprese sulle Pmi internazionali.
L’indagine parte da una premessa: le statistiche possono dire chi esporta dove e cosa, ma non come. Ed è proprio su questo punto che si concentra la riflessione: «Internazionalizzare - ha spiegato Campagnolo - è processo complesso, perché le variabili in gioco sono tante e interdipendenti; evolutivo, perché richiede processi di adattamento nel tempo e nello spazio con ridotte possibilità di apprendimento; pervasivo, perché coinvolge tutte le funzioni aziendali, e con ritorni posticipati almeno nel breve periodo, per cui è consigliato un at- teggiamento di perseveranza». Prima di partire, dunque, meglio adottare una lunga serie di accorgimenti: «Internazionalizzare è questione di metodo, più che di dimensione - ha detto Campagnolo -. Questo processo richiede una pianificazione strategica: da un lato l’analisi delle opportunità esterne, dall’altro l’analisi delle risorse interne, basata sulla coerenza tra le azioni e le risorse disponibili». Una volta imboccata la strada giusta, «le imprese internazionalizzate attivano competenze dinamiche». E Campagnolo spiega quali: «Quella di saper individuare le opportunità, sviluppando una ricerca costante e attiva e un’attitudine al mercato prima che al prodotto. Quella di saper cogliere le opportunità, implementando modelli di business con risorse proprie o di terzi, anche grazie alle relazioni. E poi quella di saper adattare l’organizzazione, con soluzioni che fanno leva sulle conoscenze pregresse e facilitano la condivisione».
Insomma, chi internazionalizza deve mettere in conto una grande «varietà e variabilità dei fattori ambientali»; ma poi può utilizzare l’apprendimento globale per accedere a nuove risorse e sviluppare nuove competenze. Paolo Gubitta, collega di Campagnolo all’Università di Padova e al Cuoa, aggiunge qualche altro spunto: «Il sistema va internazionalizzato con una spinta coraggiosa, che dev’essere bidirezionale e multidirezionale. Non bisogna parlare solo di risorse, ma anche di orientamento imprenditoriale e manageriale, cercando di essere resilienti. In un contesto di rapidi cambiamenti come quello del mercato globale, l’obiettivo delle aziende dev’essere di passare dal ‘Ti mostro la fabbrica’ a ‘Ti mostro il mappamondo’, utilizzando nuovi alfabeti basati su coerenza e scelte dinamiche».
Gubitta Serve una spinta coraggiosa, che cambi imprenditori e manager