IL NUOVO LINGUAGGIO DEL POTERE
La «manovra del popolo», «i cittadini, non i numerini», «aboliremo la povertà», «per la prima volta lo stato è dalla parte dei cittadini». E poi l’utilizzo sistematico della logica del capro espiatorio (lo straniero, l’immigrato, in particolare). E l’altrettanto sistematico ricorrere all’immaginario di un prima e un poi radicalmente opposti: prima c’erano gli «altri», i cattivi, quelli del complotto contro la gente, i «poteri forti», e andava tutto malissimo; oggi ci siamo «noi», i buoni, quelli voluti dalla gente e per la gente, i «rappresentanti (o magari gli avvocati) del popolo», e va tutto benissimo, un altro mondo è possibile, e lo costruiremo noi, contro gli altri. Il prima e il poi presuppongono una cesura radicale. Nessuna continuità è nemmeno immaginabile. Salvo dimenticarsi che metà dell’attuale governo è stato al governo per anni, e lo è continuativamente da decenni nelle regioni più ricche del paese. E salvo magari perseguire, tutti insieme, le stesse sistematiche occupazioni del potere, lo stesso spoil system, la stessa lottizzazione televisiva e non, gli stessi condoni, gli stessi ritardi e inefficienze sui decreti, lo stesso spregio del diritto e della divisione dei poteri, lo stesso allegro ricorso alla spesa pubblica: salvo chiamarli con un altro nome, ciò che consente di agire anche più brutalmente, senza remore e sensi di colpa. Tutto è nel nome della cosa, più e prima che nella cosa.
Ecco, ci pare che la rivoluzione politica in corso nel nostro paese, e per la verità non solo nel nostro, sia innanzitutto linguistica e simbolica. Retorica, se vogliamo. O, diremmo, estetica: nel senso forte che alla parola attribuiva il premio Nobel Iosif Brodskij quando definiva l’estetica come la madre dell’etica, la sua incubatrice, la sua premessa necessaria, la sua matrigna.
Nulla di tutto questo è nuovo. La politica ha sempre detto parole menzognere, ha sempre vissuto nella e della logica amico-nemico, si è sempre nutrita di slogan (e lo slogan, nella sua genericità, nel suo costruirsi un nemico di comodo, come si esprimeva Daniele Silvestri in una bella canzone, «è fascista di natura»). La differenza è solo che adesso il linguaggio ha trovato modo di esprimersi in tutta la sua inconsistente ostentata volgarità: ha mani libere, per così dire, nessun ostacolo, nessun argine culturale. E non solo in politica. Il nuovo ordine politico è fatto di parole gonfiate a forza come palloncini, e come i palloncini inconsistenti: non durano a lungo, a un certo punto scoppiano, lasciano il nulla dietro di sé, ma per un attimo le anime semplici – noi elettori – li hanno guardati e hanno detto «ooohhh». Se va bene, perché se va male, i palloncini, diventati mongolfiere, scoppiando faranno danni che potrebbe essere molto costoso rimediare.
Ecco, forse chi si oppone, non a determinate scelte politiche, nemmeno a determinate forze politiche, ma a questo modo di intendere la politica, a questo stile politico, dovrebbe cominciare a reagire. Non con lo stesso linguaggio e lo stesso metodo, come troppi fanno. Ma recuperando un linguaggio, un’estetica, essenziale, ci verrebbe da dire umile. Non ostentando parole tronfie, vuote, di fondo ignoranti, false, palesemente inutili, men che meno risolutive. Ma accettando il proprio limite, con parole meno pretenziose, pronunciate a voce bassa, avanzando la gentilezza del dubbio, il beneficio del possibile errore, ma con fermezza. E provare a fare politica non con i semplicismi, ma cercando soluzioni semplici a problemi che si sanno complessi, e dalle molte variabili. Senza dichiararsi paladini del popolo, o di qualche altra indimostrabile essenza: ma semplicemente cercando di fare, con meno compiacimento, ciò che si ritiene più giusto o utile, che è altra cosa. Respingendo l’uso truffaldino di parole, che sta crescendo in entità e ostentazione. E rifiutando come inconcepibili – un terrificante segno dei tempi – le sceneggiate dai balconi del potere: istituzionali, non di partito e di parte. Di tutti, quindi, e non solo di alcuni.