Corriere di Verona

«Io, che partii come ballerino e arrivai a un passo da Clay»

58 ANNI FA L’ORO A ROMA DE PICCOLI, EPOPEA DI UN PUGILE

- di Daniele Rea

E allora, dancing. Perché se sei nato ballerino e finisci pugile, e che pugile, tutto ruota intorno ai movimenti. E perché, forse, c’è più vita reale nell’abbraccio alle corde di due uomini disfatti dallo sfinimento e dai pugni che in ogni figura del tango. Una vita piena di punti esclamativ­i ma sempre vissuta con il sorriso. Perché se sei stato l’ottavo re di Roma, un motivo ci sarà. Se hai fatto anche l’attore e sei citato da Vittorio Gassman in un capolavoro della cinematogr­afia come Il

sorpasso, un motivo c’è. È la parabola di Francesco De Piccoli, per tutti Franco, da Campalto, propaggine di Venezia sospesa tra laguna e barene. Un gigante che a quasi 81 anni porta il carrello degli anni con grande freschezza e una memoria da far invidia a un ventenne. E, ci mancherebb­e, con un polso che fa capire come e perché questo ex ragazzo di campagna abbia vinto un oro olimpico nei pesi massimi a Roma 1960. Una parabola iniziata a 17 anni, nel 1955 e finita circa dieci anni dopo, all’improvviso, quando si è spenta la luce. Stop, ultima ripresa. Franco scavalla le corde per l’ultima volta e appende i guanti al chiodo. Di mezzo, un paio di brutte avventure sul quadrato. La prima nel marzo 1963, quando De Piccoli sembra ormai lanciato verso la sfida per il titolo mondiale con Sonny Liston, un diavolo del ring, o per incrociare i guantoni con un già superlativ­o Cassius Clay. E trova, a Roma, uno come Wayne Bethea che il diavolo l’ha già incontrato e ci ha rimesso sette denti. Franco non è al meglio ma l’incontro «s’ha da fare». E si ritrova al tappeto, addio ai sogni di gloria americani. Da lì una lenta ripresa, ma, nel 1965, un altra sconfitta per abbandono con Peter Weiland, a Mestre. E qui, a 28 anni, Franco dice basta.

De Piccoli, una vita come un romanzo, la sua...

«Difficile come poteva essere in quegli anni. E con un chiodo fisso: volevo diventare qualcuno nel mondo dello sport. Non soldi, non ricchezza: volevo fare qualcosa di importante e penso di esserci riuscito».

E la boxe non è stata certo il suo primo amore, giusto?

«Provai con il calcio da ragazzino con la Mestrina, ma mi feci male. Poi il ciclismo: mi piaceva ma ebbi un incidente finendo in un fossato. Stop anche con la bicicletta, troppo pericoa loso diceva mia madre».

Ma il suo sogno sportivo resta.

«Avevo 17 anni, lavoravo in fonderia a Ballò: andata e ritorno in bici, una vitaccia. E poi avevo una passione, il ballo».

Non si direbbe, guardando al fisico...

«E invece ero bravissimo: rock and roll, valzer, tango, foxtrot... Ero grande e grosso ma ero leggero, avevo senso del ritmo innato».

Ma è poi vero che la sua carriera inizia in sala da ballo?

«Certo che è vero: andavo ogni domenica a ballare, al Mokambo, al Bagigi, dove capitava. E proprio al Bagigi, Emilio, il proprietar­io, aveva una palestra a Spinea. Mi vide ballare e mi propose di provare con la boxe». E lei? «E io accetto. Ma di nascosto, perché mia madre non doveva saperlo. Su la mattina all’alba per andare al lavoro, in fabbrica fino a sera e poi in palestra ad allenarmi... Vita dura eh, in bicicletta poi... Finchè in palestra non mi hanno regalato un motorino».

Il primo incontro?

«Ricordo tutto. Era il 3 marzo 1955, domenica. Io non ero proprio convinto, dovevo andare a ballare... Mi misero in apertura, il mio avversario si chiamava Trevisan: beh, l’ho inquadrato e con un sinistro l’ho spedito fuori dal ring. Incontro finito dopo 40 secondi».

Piuttosto breve come incontro...

«Ah sì, mi sono fatto la doccia, ho preso il motorino e sono andato alla Colomba, a Campalto, a ballare naturalmen­te».

E il giorno dopo?

«Non lo sapeva nessuno casa ma il giornale riportò la notizia: mia madre vide l’articolo e quando tornai a casa presi quello che non mi aveva dato il mio avversario».

Da lì, però, la carriera ha preso il volo.

«Avevo talento, oltre che fisico. Ero un mancino, più difficile da contrastar­e. Ho vinto due volte i campionati dilettanti e nel 1960, prima delle Olimpiadi, i Mondiali militari».

E ha preso il diretto per Roma...

«Beh, c’era Giorgio Masteghin, che con me si disputava il posto per i Giochi: l’ho battuto e a Roma ci sono andato io».

Ricordi romani?

«Bellissimi, che emozione... Dividevo la stanza con Benvenuti, grande pugile e ragazzo molto intelligen­te. Nel pugilato serve la testa eh, mica solo i pugni».

A Roma c’era anche un certo Cassius Clay, vi siete incrociati?

«Certo, lui era nella categoria dei mediomassi­mi... Si vedeva già allora che era di un’altra categoria. Magari un po’ troppo protagonis­ta, ma un fuoriclass­e assoluto»

La finale, De Piccoli, come la ricorda?

«C’era un tifo eccezional­e, i romani erano impazziti, c’erano ventimila persone... Trovai il sudafrican­o Bekker e lo misi ko dopo due minuti con un gran gancio. Un trionfo».

Festeggiam­enti al ritorno?

«Incredibil­i... mi portarono su una Buick decapottab­ile gialla, in piazza Ferretto a Mestre c’erano migliaia e migliaia di persone. Non potrò mai dimenticar­lo. Mai. Questo è ciò che ti resta, non i soldi».

A Roma lei era un idolo assoluto...

«Davvero. Mi chiamavano l’ottavo re di Roma. Non potevo girare per strada che la gente mi stava addosso, mi salutava, mi fermava per un autografo, dovevo calarmi un cappello in testa... quasi impossibil­e a ripensarci».

I suoi incontri quanto pubblico richiamava­no all’epoca?

«Non meno di quindicimi­la spettatori. Un giorno i biglietti erano già esauriti».

Una parabola altissima ma breve, la sua. Come mai?

«Il ko con Bethea mi restò addosso. Non stavo bene ma si decise di combattere lo stesso. E fu uno sbaglio. Poi ripresi, ma nel 1965 mi ritirai con Wieland, proprio a Mestre, davanti alla mia gente... No, non ne avevo più. Decisi di smettere e fu una buona decisione. Non puoi andare sul ring senza spinta interiore».

Lei sembrava già in pista di lancio per incontrare Sonny Liston per il titolo mondiale, oppure proprio Clay: rimpianti?

«No, si vede che non era destino. Però io avevo forza, velocità, ritmo, colpo d’occhio: magari avrei perso ma potevo battermi» E poi?

«Con i soldi della boxe comprai casa e mi dedicai all’autoscuola che mio figlio conduce ancora adesso. Mai pensato di restare nella boxe, nemmeno come allenatore». Per lei anche un’esperienza come attore: solo una parentesi?

«Sì, mi chiamarono come protagonis­ta del film “Alto quasi due metri”, un giallo in una serie tv, mi pare si chiamasse “Quattro delitti”. Ma non era proprio la mia strada».

De Piccoli, segue ancora il pugilato?

«No, nemmeno in tv. Non mi piace, mi pare che si pensi solo ai soldi, a fare spettacolo».

Insomma, si gode il buen retiro...

«Sto bene, a casa con la mia compagna, che da 32 anni mi sta al fianco. Ed è questa la medaglia più bella da portare».

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