Una montagna di rifiuti nascosta nel capannone
San Massimo, situazione a rischio, il Noe sequestra l’immobile. I residenti: odori pestilenziali
Il Noe dei carabinieri ha messo i sigilli a un capannone a San Massimo, in via Lugagnano, dove sono state scoperte circa ottanta tonnellate di rifiuti. I vicini si erano allarmati per l’odore nauseante.
Cumuli di rifiuti accatastati fin quasi al soffitto. Lì dove, fino a qualche anno fa, vi erano le celle frigorifere, oggi ci sono tonnellate di carta, plastica e altro materiale di scarto. E, a certificare che non si tratti di uno stoccaggio regolare, ecco i sigilli apposti sui portoni del capannone dai carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico di Treviso.
Un sequestro d’iniziativa scattato circa due settimane fa che ha dato ora il via a un’indagine della magistratura su cui è ancora massimo il riserbo. Ma in via Lugagnano, il rettilineo che da San Massimo conduce fino a Sona, il viavai di pattuglie dal piazzale al civico 41 non è certo passato inosservato. A finire sotto i riflettori dei militari specializzati nel contrasto dei reati di tipo ambientale, è stato il capannone dell’ex Cooperativa ortofrutticola Acli San Massimo. L’attività, specializzata nel commercio di ortaggi, ha chiuso i battenti da più di cinque anni e risulterebbe in liquidazione. Lo stabile è rimasto inutilizzato per anni, ma da fine agosto si sarebbe rapidamente «animato».
All’interno, giorno dopo giorno, hanno incominciato a spuntare cumuli e cumuli di rifiuti. Da fonti investigative, sembrerebbe che al momento del blitz, la quantità di materiale stimato all’interno sfiorasse le ottanta tonnellate. I residenti in zona, dietro la promessa dell’anonimato, confermano il cambiamento raccontando di zaffate di odori pestilenziali e sciami di mosche. Ma il più preoccupato è Luigi Biasi, il presidente della cooperativa agricola Salvi.
Stesso civico, stesso cancello d’ingresso: il capannone della cooperativa specializzata in mangimi, concimi e antiparassitari è esattamente dietro quello incriminato. E per raggiungerlo, dipendenti e clienti, dal mercoledì al sabato mattina, passano di fronte ai portoni dell’ex Acli San Massimo, «ammirando» (si fa per dire) l’inquietante spettacolo. «Quando sono venuti i carabinieri, li ho ringraziati più volte - ricorda Biasi -. Per fortuna hanno sequestrato tutto. Ma qui adesso mi auguro che il capannone venga liberato al più presto».
Lui non lo ammette, ma il pensiero, leggendo i giornali e guardando i servizi alla tv negli ultimi giorni, è andato immediatamente a quanto avvenuto domenica scorsa al deposito di via Chiasserini, alla periferia di Milano. Un incendio (sulle cui cause sono ancora in corso indagini), che ha reso irrespirabile l’aria del capoluogo lombardo per giorni e giorni, con tanto di allarme-diossina (anche se gli esperti hanno parlato di valori alterati ma non pericolosi). Del resto, anche nel Veronese, di recente si sono registrati roghi all’interno di depositi di rifiuti. L’ultimo, il più clamoroso, quello di aprile che aveva distrutto il capannone della «Sev 2.0» di Povegliano. Un incendio su cui stanno proseguendo le indagini dell’Arma.
E il mese prima era stata la video inchiesta di «Fanpage» a puntare i riflettori su un inquietante sistema di smaltimento «brevettato» dalla Camorra: trovare capannoni, intestarli a prestanome per qualche soldo e riempirli di rifiuti. Le telecamere nascoste avevano raccontato il caso di una azienda di trattamento rifiuti nella zona di San Martino Buon Albergo, ritrovatasi con lo stabilimento pieno di rifiuti putrescenti, in cambio di un «aiuto» arrivato dalla Campania.
Ora, a San Massimo, il blitz degli uomini del Noe dell’Arma. Indagini in corso, ma il signor Biasi e gli altri residenti si augurano che al più presto qualcuno ordini una bonifica.