Corriere di Verona

I 50 anni de «La Fraternità» Cena speciale con i detenuti, il vescovo Zenti e l’imam

- di Angiola Petronio

«Non è vero che oggi si commettono più reati. Oggi c’è solo più comunicazi­one, più sensaziona­lismo. Si dà notizia di un detenuto che evade dal permesso premio, o che fa una rapina durante la semilibert­à, ma non si parla mai di quei tantissimi che rigano dritto, che tentano realmente di cambiare...».

Fra’ Beppe disse queste parole dieci anni fa. Le ha ripetute l’altra sera. Perché il tempo che passa non sempre è sinonimo di cambiament­o, nei pregiudizi. Era con altre cinquanta persone in carcere a Montorio. Perché non poteva che essere tra quei muri di contenimen­to ed espiazione intrisi di una umanità caleidosco­pica, che «La Fraternità» festeggias­se i suoi cinquant’anni. Quell’associazio­ne che ha come mantra «Liberi per liberare» e che fra’ Beppe ha fatto nascere mezzo secolo fa su suggerimen­to di alcuni ergastolan­i di Porto Azzurro «per il sostegno morale ai detenuti e alle loro famiglie, per accompagna­re i percorsi di recupero e riparazion­e, per sensibiliz­zare l’opinione pubblica e le istituzion­i sul significat­o della pena e sui problemi del carcere».

E l’altra sera i volontari de La Fraternità in galera ci sono entrati per ricordare quei cinquant’anni. C’era il vescovo, che li ha benedetti. C’era un imam tunisino e il portavoce della comunità islamica di Verona Mohamed Guerfi. C’era il cappellano di Montorio, frate Angelo. C’era il direttore del centro pastorale migranti, don Giuseppe Mirandola. Perché «la Fraternità», che nel nome ricalca l’insegnamen­to di San Francesco, è di ispirazion­e cattolica. Ma in cinquant’anni, a furia di entrare da quelle porte che ti si chiudono alle spalle, ha imparato ad aprire. Alle altre fedi, agli uomini e alle donne senza giudicarli, ma accompagna­ndoli nel percorso dettato per loro dalle legge. In undici di quei reclusi l’altra sera hanno preparato la cena per i volontari de La Fraternità. Sono i detenuti che frequentan­o la sezione di Montorio della scuola alberghier­a Berti. Si è cenato nella sala «ricreativa», quella che ha le pareti dipinte a metà e che funge da «palestra» con pochi tapis roulant e qualche panca. Hanno spignattat­o al piano superiore, quegli undici aspiranti cuochi. E a tavola i piatti li portavano i ragazzi che il Berti lo frequentan­o nella sede del Chievo. Sono un esempio di quelli di cui «non si parla mai», quegli undici.

«I volontari della Fraternità sono qualcosa di più di un appoggio - hanno raccontato dopo la cena - È una realtà sulla quale non solo noi ma anche le nostre famiglie possiamo contare. Magari non li frequenti per un po’, ma sai che ci sono sempre. È come fanno i migliori amici...».

Fanno di tutto e di più, i volontari de La Fraternità in carcere a Montorio. Dal centro d’ascolto ai colloqui di primo ingresso, dall’aiuto nella ricerca di un lavoro agli incontri di sostegno per i familiari, tengono una corrispond­enza epistolare con detenuti in tutta Italia, producono libri.

La loro sede è a San Berardino, il convento di Fra’ Beppe. Tra di loro ci sono persone che fanno i volontari da più di quarant’anni, come il presidente Roberto Sandrini. E ci sono detenuti che una volta espiata la pena hanno deciso di aiutare chi non ha ancora finito il cammino. La storia della Fraternità, i suoi cinquant’anni, sono anche una mostra aperta oggi e poi da giovedì a domenica nel chiostro di San Berardino in cui si raccontano, con foto e pannelli i tantissimi atti «disarmanti e controcorr­ente» dei volontari. Quelli che hanno capito come «gli uomini malvagi esistono, ma i disperati esistono in numero maggiore. E sono loro ad affollare le nostre galere».

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Solidariet­à Fra’ Beppe Prioli e, accanto il presidente Sandrin

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