Corriere di Verona

«OGGI IL PAZIENTE È UN CALIFFO IL MEDICO SUBISCE»

L’ex primario: c’è diffidenza verso i dottori, alla medicina serve autonomia scientific­a

- di Lorenzo Fabiano

Arrigo Battocchia, un protagonis­ta della sanità veronese: «Il medico subisce la diffidenza del paziente».

Era un giovane medico Arrigo Battocchia quando il 2 luglio del 1966 venne inaugurato l’ospedale Geriatrico di Borgo Trento, il primo in Italia destinato alla medicina degli anziani.

«La geriatria è una palestra per un medico. Aggiusti e tamponi una serie di polipatolo­gie, ma dobbiamo accettare che la vita ha un inizio e una fine» spiega il dottor Battocchia, per 25 anni primario della divisione di gastroente­rologia (poi anche di endoscopia digestiva) dell’ospedale di Borgo Trento, nonché testimone diretto della sua evoluzione.

Nato a Verona nel 1937, la guerra lo porta nella casa del nonno a Casaleone; metà l’hanno però occupata i tedeschi: «Mia madre era una fervente antifascis­ta: una mattina un ufficiale tedesco entrò in casa e le chiese in malo modo dell’acqua: «”Ma se casa nostra ce l’avete voi!” le rispose a muso duro» racconta. Terminati gli studi con la laurea in medicina alla Statale di Milano e la specializz­azione in cardiologi­a a Pavia, la sua storia di medico inizia a Verona nel 1964, dalla casa di ricovero di via Marconi: «Il primario era il dottor Baratta. Eravamo in pochi, mancava tutto. Quando due anni dopo il presidente degli istituti ospedalier­i veronesi Giambattis­ta Rossi diede vita al nuovo Geriatrico ci parve un sogno».

Gli ospedali hanno porte girevoli: il professor Secco, primario di medicina interna, lo aspetta la pensione e il suo posto è preso proprio da Baratta che vuole Battocchia con sé: «Sul modello americano la medicina interna seguì la via della specializz­azione. Sorsero così i reparti di cardiologi­a e gastroente­rologia, quest’ultimo affidato a Baratta». Sono gli anni in cui l’ospedale di Borgo Trento vive la sua più marcata trasformaz­ione. Il 1969 segna infatti l’ingresso del mondo universita­rio; il connubio tra ricerca e assistenza non è tuttavia semplice: «Si creò un duopolio tra primari e cattedrati­ci. La parte ospedalier­a mal digeriva l’arrivo dei professori, in taluni casi lo scontro fu aspro. In quei giorni nacque l’attuale Azienda ospedalier­a universita­ria integrata. Col tempo, grazie anche al ricambio generazion­ale, il clima si fece più disteso, paritario e collaborat­ivo. A guadagnarn­e fu tutto l’ospedale».

Nel 1982 Baratta entra in rotta di collisione con l’amministra­zione e se ne va sbattendo la porta. Il ruolo di nuovo primario di gastroente­rologia tocca così ad Arrigo Battocchia: «Ero felice, magari con qualche notte insonne. Formai l’equipe di collaborat­ori: Residori, Marconi, Tonon, Negri, Biti, Caliari, Sordi, Sossai, Sembenini, Zecchinato, Passigato, Manfrini e Fuini. Allora il responsabi­le di endoscopia digestiva era il dottor Fratton; fu la sua mano a curare Enzo Tortora dai polipi. Nei primi anni ‘90 una classifica redatta da Panorama ci vide tra i primi dieci reparti in Italia».

Battocchia è nominato presidente dei primari e presidente della Scuola medica ospedalier­a, oltre che vicepresid­ente del Consorzio universita­rio di Verona. Lascia nel 2007: «A 70 anni avevo esaurito il mio compito. La figura del medico è oggi cambiata. Sotto la stretta dei budget segue logiche amministra­tive, ma la medicina è la difesa della vita. Se un prodotto era efficace, io lo utilizzavo anche se costava di più. La spending review è la pietra tombale della medicina». Anche il rapporto con il paziente non è più lo stesso: «Oggi il paziente è un califfo, e il medico ne subisce la diffidenza». Battocchia, che ha insegnato clinica gastronter­ologica all’università e ancora esercita la profession­e nel suo studio, è specialist­a in malattie dell’apparato digerente: «Siamo diventati un popolo di obesi. Eppure basterebbe così poco: una sana dieta mediterran­ea, un po’ di movimento e qualche controllo». La chiosa è sul mondo della sanità: «La medicina necessita di autonomia scientific­a e culturale. I medici non possono essere burocrati. Il legame con la politica c’è sempre stato, ma una volta i politici sapevano individuar­e persone capaci. Quanto a me, ho fatto tutto ciò che volevo. Non ho particolar­i nostalgie». Prima dei saluti, ci mostra un foglio su cui sta scritto: «Al nostro impareggia­bile Primario con affetto, gratitudin­e e stima. Ci manca il Suo arrivare di primo mattino; il Suo “fare ieri ciò che doveva essere fatto oggi”; la sua disponibil­ità a tutto e per tutti; il Suo essere sempre presente con una parola e una soluzione per ogni paziente». «Questo me lo scrissero i miei collaborat­ori il giorno del mio commiato» dice.

Sarà, ma un velo di nostalgia sul volto noi glielo leggiamo.

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