Allarme batterio killer, le Usl richiamano diecimila operati al cuore
Gli ispettori regionali: «Nessuna responsabilità degli ospedali veneti. Hanno agito correttamente»
Diecimila pazienti che tra il 2010 e il 31 dicembre 2017 hanno subìto la sostituzione della valvola cardiaca nelle quattro Cardiochirurgie degli ospedali di Padova, Vicenza, Treviso e Mestre riceveranno un’informativa dalla Regione contenente una scheda sui sintomi provocati dal Mycobacterium Chimaera (febbre, sudorazioni notturne e deperimento organico protratti per oltre due settimane e non legati ad altre cause) e l’invito a contattare i numeri di telefono indicati qualora ne fosse insorto anche solo uno. In quel caso saranno affidati ai reparti di Malattie Infettive e sottoposti a specifico esame microbiologico per la diagnosi. L’ha deciso il gruppo di lavoro istituito dalla Regione in seguito ai 18 casi di infezione (due su persone trattate fuori dal Veneto) e ai sei decessi — su 30mila interventi eseguiti negli ultimi otto anni — legati al batterio killer che si è annidato nei macchinari della LivaNova Deutschland GmbH per il riscaldamento/raffreddamento del sangue in pazienti operati a cuore aperto e tenuti in circolazione extracorporea.
Il pool coordinato dalla dottoressa Francesca Russo, a capo della Direzione regionale Prevenzione, e composto dai primari delle quattro Cardiochirurgie interessate, dai responsabili dei centri di Malattie infettive di Padova, Verona, Treviso, Vicenza e Mestre e dai direttori medici degli ospedali coinvolti, si è riunito ieri nella città del Santo. E, in base al principio di massima precauzione, ha deciso di richiamare i pazienti con protesi valvolare perchè ad alto rischio, riservandosi di valutare l’allertamento dei soggetti ai quali è stato installato il bypass dal 2010 a oggi e considerati dalla letteratura scientifica a basso rischio. E’ stato inoltre formulato un protocollo condiviso con l’Emilia Romagna, che ha accertato due vittime al Salus Hospital di Reggio, sta conducendo accertamenti su altre due morti sospette avvenute nello stesso ospedale e su un centinaio di cartelle cliniche relative a pazienti sottoposti a interventi di cardiochirurgia nel periodo 2010-2017 e poi deceduti. A sua volta l’Emilia ha richiamato con una lettera tutte le 10mila persone operate a cuore aperto in quegli anni. Le linee guida elaborate dalle due Regioni saranno inviate al ministero della Salute, che le utilizzerà come prototipo. E che sta pensando a un’azione legale contro la LivaNova — provvedimento già deciso da Palazzo Balbi per il risarcimento danni— e a divulgare una nota a livello europeo per mettere in guardia gli ospedali ancora dotati del dispositivo sotto accusa.
A tale proposito il gruppo di lavoro ha esaminato la relazione degli ispettori mandati dall’area Sanità negli ospedali di Vicenza (4 morti), Treviso (una vittima), Padova (un decesso) e Mestre dopo che il caso è venuto alla luce. Nel dossier si legge che le aziende sanitarie interessate non hanno alcuna responsabilità, perché «hanno fatto tutto ciò che la ditta produttrice ha consigliato per la pulizia e la sterilizzazione del dispositivo». Istruzioni potenziate a giugno 2015, quando la LivaNova Deutschland GmbH inviò una e-mail al capo tecnico responsabile della manutenzione della tecnologia all’Usl di Vicenza, per dire: «Bisogna intensificare i lavaggi della macchina con il perossido di idrogeno». L’Usl ha eseguito e la ditta produttrice per due volte, a cavallo tra il 2015 e il 2016, ha mandato tecnici propri a verificare le procedure di sanificazione, trovando «tutto a posto», scrivono gli ispettori. Ma visto che nel resto del mondo il «caso Mycobacterium Chimaera» era ormai esploso, con le prime vittime in America (dove già nel 2015 il macchinario venne bandito dagli ospedali), nel 2017 l’Usl vicentina condusse un esame microbiologico nel serbatoio dell’acqua del dispositivo «incriminato». E ci trovò il batterio killer. A quel punto lo dismise e ne diede comunicazione alle altre Usl, che a loro volta non lo usarono più. Tutti sono stati sostituiti dalla tecnologia stagna della francese Marchet, con l’ordine categorico da parte della Regione di tenerla comunque fuori dalla sala operatoria.