Corriere di Verona

MOBILITÀ, IMPARIAMO DA MILANO

- di Gigi Copiello

E’caduta anche l’ultima difesa, l’ultimo baluardo. Già si diceva che eran più ricchi, ma in cuor nostro mica eravamo convinti. E comunque, si pensava: da noi si sta meglio. E invece, adesso, è a Milano, nella grande Milano, che meglio si vive. E corrono gli affari. E’ la fine, proprio la fine, del «piccolo è bello». Ma non avviene per caso.

Milano ha risalito, gradino dopo gradino, classifich­e di reddito e di qualità della vita. Lo ha fatto perché tutti i Sindaci (e ne abbiam visti di tutti i colori…) hanno avuto un forte governo unitario, radicato nella stessa visione. La visione era questa: garantire a tutti una grande libertà di circolazio­ne con il trasporto pubblico e collettivo, via dalle strade. Il metrò allora; e nuove linee di tram. Senza questa visione, Milano avrebbe la qualità della vita di Napoli e Roma.

Ma senza questa visione anche il piccolo non è più bello.

Da noi muoversi ormai è un incubo. Nelle ore di punta, si perdono ore per pochi chilometri. Le code arrivano dentro le autostrade, attorno a Padova, Vicenza e Verona. Da poco finita la terza corsia sull’A4, già c’è bisogno della quarta. E quando si fa una bretella, si sposta solo più in là il collo di bottiglia e l’ingorgo. Per la stessa ragione e visione, arriviamo ultimi con la Tav, gestiamo a fatica i binari posati nell’800 e sopravviss­uti alla strage del ‘900. E abbiamo un trasporto su gomma ridotto ad uno scuola bus.

E’la nostra situazione, figlia della nostra visione: un governo frantumato, debole e disperso, che lascia per strada individui e privati ad arrangiars­i da sé.

Una visione che non fa vedere, ma acceca. Non fa vedere che due provincie come Padova e Vicenza, ad esempio, hanno già due milioni di abitanti, come Milano. Non fa vedere che da Padova a Vicenza ci vuol meno tempo che da piazza Aulenti a piazza Duomo: 17 minuti contro 20, in Regionale veloce che è come il metrò di Milano. Soprattutt­o: questa visione non fa vedere che la cosa che manca è il governo unitario di questa città. Visioni allora. Che, sia detto una buona volta e per tutte, nulla hanno a che fare con le cosiddette identità. A Milano ne hanno una fiera campionari­a. Sono sempre milanisti e interisti. Si sono aggiunti, tra gli altri, anche i cinesi, padroni di Inter e Milan e di una strada lunga due chilometri, in centro città. Ma sopra queste tante identità, c’è una visione. Quella tramandata da un antico proverbio tedesco. Ma anche cimbro, dei tedeschi scesi nelle nostre valli alcune centinaia di anni fa. Tradotto, quel proverbio dice: l’aria della città rende liberi. E’ l’aria di Milano.

Non convince che questa sia la visione, la differente visione, tra noi e Milano? E allora proviamo a chiederlo alle decine di migliaia di nostri figli e nipoti che vanno a studiare, la-vorare e vivere proprio a Milano. Magari cominciand­o in camere a ore, con lavori precari, panini a pranzo e pizze scongelate di sera. Ma son liberi di muoversi, anche senza auto. Ma sono liberi di incontrare il mondo, spesso parlando lingue diverse. Ma la città è aperta, per provare e innovare. Proviamo a chiederlo. Se possono credere a noi che non frequentia­mo più nessuna chiesa ma tiriamo su barriere della madonna. Barriere, va detto, tra noi e contro di noi, che manco siam buoni a metter assieme una visione che unisca un po’ di Comuni e qualche città. Per conto mio, non solo hanno voglia di essere liberi. Hanno voglia di liberarsi. Per es-sere chiari: di liberarsi di noi. O di qualcuno di voi.

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