Grbic, il coach di Calzedonia e l’arte di vivere
Il coach della Calzedonia si racconta «Vincere? Se non giochi bene perderai presto. E dalla Serbia porto la voglia di lottare: ce lo insegna la nostra storia»
Chi vince non si prende tutto: «Se riesci a farlo soltanto con l’aiuto della fortuna, per un episodio favorevole, presto perderai».
Nikola Grbic è alla terza stagione da coach della Calzedonia Verona. Lunedì sera l’Agsm Forum, ribollente di passione con quattromila spettatori sugli spalti, ha festeggiato il 3-2 sull’Itas Trentino, big della Superlega di volley e sconfitta in una serata di pura bellezza. Eppure Grbic non si ferma al nitore di un successo. Lo scavalca secco, non lo coccola. Il motivo? Semplicemente, non basta. Fu un giocatore e poi allenatore di football americano, Red Sanders a pronunciare la celebre frase per cui vincere è l’unica cosa che conta.
Grbic, non è d’accordo?
«Preferisco le parole di John Wooden, il grande coach di college nel basket che ha guidato Ucla e forgiato, tra gli altri, Lew Alcindor, ossia Kareem Abdul-Jabbar: “Gioca sempre al massimo delle tue possibilità”. Questo è quel che mi preme trasmettere. Se lo fai, persino il risultato passa in secondo piano. Se perdo e gioco bene non mi preoccupo. Se accade il contrario, invece, sì. La vittoria non può arrivare dal caso».
E come la si costruisce?
«Con la consapevolezza di sé. A novembre, quando le cose non giravano, ho detto che avevamo perso la voglia di vincere. L’abbiamo recuperata per diverse ragioni. Certo, c’è stato l’arrivo di Matey Kaziyski, e questa è stata una svolta, però la crescita è stata complessiva. Penso a giocatori come Boyer, Manavi, Spirito: giovani che hanno effettuato un percorso».
Questa Calzedonia viene da cinque successi di fila, è sesta e inquadra il quinto e persino il quarto posto, a cominciare dallo scontro diretto di domenica con Milano. In Bull Durham, celeberrimo film sul baseball, Kevin Costner dice che non si pasticcia con una serie vincente. Come non farlo?
«Dipende dalla testa. Sono le situazioni che hai vissuto che ti formano. Se hai perso, ti sei creato degli anticorpi; hai capito come affrontare un momento di difficoltà e come superarlo. Ecco, in questo senso siamo maturati. Prima, quando si andava sotto, non ci si tirava su. Ne siamo usciti».
Differenze tra la squadra che era e quella che è?
«Uno dei miei maestri, Julio Velasco, usava una metafora: “Il pugile forte non è quello che picchia più duro, ma quello che va a terra, si rialza e ricomincia a battersi”. L’esempio, nel volley di oggi, è Perugia, che vince anche per la capacità di andare oltre le complicazioquel
ni che si presentano in una partita».
Viene in mente, allora, un’espressione attribuita a Sun Tzu, filosofo e generale cinese: “Chi è prudente e aspetta con pazienza chi non
lo è, sarà vittorioso”. Lei la condivide?
«Totalmente. Le partite le vinci – e, meglio ancora, impari a vincerle – quando il tuo avversario ti è superiore. Ma se resisti, se sai aspettare, se in periodo della gara in cui devi incassare non cedi, se hai la conoscenza dei tuoi mezzi, potrai essere tu, dopo, a colpire».
Lei è serbo. Del suo popolo si dice che sia da sempre guerriero. Quanto peso ha questo nella sua tensione verso la vittoria?
«Siamo stati addestrati a combattere per la stessa conformazione del territorio: i Balcani sono stati oggetto di continue invasioni, si doveva lottare per cacciare il nemico. Una valutazione che va calata sull’intera Jugoslavia, che ora non c’è più ma che c’era quando sono nato, ed era un Paese utopico, ideale, tenuto unito dal carisma di un leader come Tito. Siamo così: più temibile è la minaccia, maggiore è la nostra determinazione nel volerla sconfiggere».
Le chiediamo di chiudere gli occhi e chiedersi che cosa sarebbe la Jugoslavia, in termini sportivi, oggi, se esistesse ancora.
«Non credo di esagerare se ritengo che si tratterebbe di una potenza mondiale, in grado di competere in qualsiasi disciplina con l’ambizione legittima di vincere. Mamma mia, se ci penso mi viene la pelle d’oca. Essere jugoslavi voleva dire che non potevi mai accettare di chinare la testa. Prendete la Serbia: noi siamo competitivi per temperamento, mai disposti ad accontentarci».
Un caso evidente?
«Nole Djokovic, che è un fuoriclasse pazzesco, uno che ha vinto decine di tornei di tennis, compresi tutti quelli del Grande Slam, un campionissimo, un numero uno. A Belgrado, appena accusa un leggerissimo calo o perde una partita, fioccano le polemiche, si scuote la testa con malcelato disappunto. Questo avviene per una ragione: teniamo l’asticella altissima, non consentiamo a noi stessi di abbassarla neanche impercettibilmente. Ci esaltiamo nel confronto, nel testa a testa, nell’agonismo».
Dovesse indicare un emblema della vittoria, chi sarebbe?
«Michael Jordan. Ha rivoluzionato non solo la pallacanestro, ma tutto lo sport. Quando, a metà anni ’90, tornò ai Chicago Bulls dopo essersi ritirato, la Nike, che era il suo sponsor, ebbe un aumento del 3% delle vendite su scala mondiale: questo significa avere un impatto sociale, essere un’icona».
E come lo si diventa?
«Sto leggendo un libro, scritto da James Clear, uno studioso statunitense, il titolo è “Atomic habits”, me l’ha consigliato Karch Kiraly (ex schiacciatore Usa, ndr) . Il concetto che ne è la base è uno: la ripetizione forma l’abitudine. Un sentiero non battuto è una nuova sfida, però devi avere la volontà di inoltrarti lungo una via che non conosci. Sulla strada commetterai degli errori, ma una volta che li avrai compresi e corretti, arriverai dove non immaginavi. Per questo, alla fine di ogni allenamento, per 15’, invito i miei giocatori a sperimentare qualcosa che non hanno provato prima, ad avere il coraggio di tentare. Sbaglieranno, sbaglieranno ancora. Sbaglieranno meglio. E poi vinceranno».
La vittoria Le partite le vinci, e meglio ancora impari a vincerle, solo se chi hai davanti ti è superiore La ex Jugoslavia Se esistesse ancora? Mamma mia, sarebbe una potenza nello sport: mi viene la pelle d’oca...