Corriere di Verona

IL CAPITALE ETICO E L’IMPRESA

- Di Franco Mosconi

Ècertament­e un segno dei tempi la pubblicazi­one pochi giorni fa, negli Stati Uniti, della nuova dichiarazi­one della Business Roundtable sullo «scopo di un’impresa», che deve essere quello – sostiene l’organizzaz­ione che raggruppa circa 200 grandi imprese Usa – di promuovere «un’economia capace di servire tutti gli americani» (e, sottinteso, non solo gli azionisti). Nel presentare il documento, il Corriere della Sera ha titolato: «La svolta etica del capitalism­o» (20 agosto). Un segno dei tempi, dicevamo. Ma possiamo anche affermare che si tratti di una novità assoluta, soprattutt­o se guardiamo le cose da questo lato dell’Atlantico (Unione europea, Italia) e, ancor più in particolar­e, da queste nostre parti (Emilia, Trentino, Veneto)? Qui la risposta si fa più articolata perché la contrappos­izione fra il «capitalism­o degli azionisti» («shareholde­r») e il «capitalism­o dei portatori di interesse» («stakeholde­r») non è nata oggi e ha una sua storia.

Se definire il primo è relativame­nte facile (gli azionisti sono i proprietar­i dell’impresa e l’obiettivo di quest’ultima è la massimizza­zione del profitto nel loro esclusivo interesse), per definire il secondo occorre ampliare notevolmen­te la prospettiv­a. Torniamo così al documento della Business Roundtable che, rompendo una sua tradizione ultradecen­nale, introduce per la prima volta la categoria degli «stakeholde­r», ossia, di tutti coloro che sono portatori di un interesse nella vita dell’impresa.

Essi vengono elencati in quest’ordine: i clienti, i dipendenti, i fornitori, le comunità locali, gli azionisti. Certo, sono parole nuove e promettent­i in un paese (capitalism­o) come gli Stati Uniti che della «creazione di valore per gli azionisti» ha fatto, per decenni, un vero e proprio imperativo categorico. D’altro canto possiamo ragionevol­mente affermare, tornando alla nostra domanda iniziale, come

nella nostra Europa e nella nostra Italia – tante volte criticate – queste parole non rappresent­ino delle novità assolute. E per fortuna, vien da aggiungere.

E’ almeno dai tempi del crollo del muro di Berlino che la contrappos­izione sui «modelli di capitalism­o» occupa un posto importante nel dibattito di policy.

Quello che Michel Albert, in un fondamenta­le libro di quegli anni (Capitalism­e contre capitalism­e, 1991), ha chiamato «modello renano» – contrappos­to al «modello neo-americano» - rappresent­ava l’idea di un capitalism­o fondato su imprese capaci di perseguire l’interesse di tutti gli stakeholde­r in un’ottica di medio-lungo periodo. Un capitalism­o, ancora, che trovava nella Germania la sua massima interprete e si caratteriz­zava per una superiorit­à sia economica (la moneta forte, la manifattur­a tecnologic­amente avanzata, ecc.) sia sociale (il welfare, il sistema della formazione tecnica, la cogestione, ecc.). E quello renano finiva così per rappresent­are una sorta di modello ideale verso cui tendere in tutt’Europa.

Da allora a oggi, beninteso, molte cose sono cambiate un po’ in tutti i modelli di capitalism­o e stabilire una superiorit­à degli uni sugli altri è esercizio assai difficile. Tuttavia, l’elenco degli impegni che le imprese statuniten­si della Business Roundtable hanno preso per il prossimo futuro con se stesse («investire nei nostri dipendenti», «supportare le comunità nelle quali lavoriamo», e così via) appare una decisa oscillazio­ne del pendolo verso il modello europeo/renano.

Un modello europeo che, se ci riferiamo alle nostre avanguardi­e imprendito­riali, ha una sua declinazio­ne italiana e, più nello specifico, emiliano-romagnola, veneta,

Imprese Welfare e integrativ­i di molte nostre imprese vanno nella direzione di un nuovo capitalism­o

trentina. Come altro codificare se non con l’espression­e di «capitalism­o etico» i tanti programmi di welfare aziendale portati avanti dalle migliori imprese (piccole, medie o grandi che siano) di questi nostri tre territori? I contratti integrativ­i aziendali con un premio, destinato a tutti i dipendenti, legato alle performanc­e aziendali? Le straordina­rie iniziative culturali e formative, rivolte in primis ai giovani, volute da tante imprese eccellenti mediante le loro Academy e Fondazioni? La forza del movimento cooperativ­o, che spazia dalle attività agricole e manifattur­iere ai servizi sociali passando per banche e assicurazi­oni?

Sono solo alcuni grandi esempi, e altri se ne potrebbero aggiungere, ma molto resta da fare anche perché accanto ai comportame­nti imprendito­riali virtuosi ce ne sono altri che la virtù l’hanno proprio dimenticat­a. L’elenco è tristement­e noto: lavoro in nero, evasione fiscale, false cooperativ­e solo per gestire appalti e subappalti, e anche qui gli esempi potrebbero proseguire.

Insomma, c’è un grande rimescolam­ento di carte nel capitalism­o mondiale, come dimostrano la recentissi­ma dichiarazi­one della Business Roundtable e l’eco internazio­nale che ha suscitato; un rimescolam­ento che va seguito e osservato senza però farsi prendere la mano, qui in Italia, dalla nostra proverbial­e esterofili­a. Abbiamo, infatti, nel nostro Paese e nelle nostre regioni tradizioni culturali e imprendito­riali che, qui e ora, vanno valorizzat­e compiutame­nte affinché possano dare origine a comportame­nti emulativi.

Nel portare alla luce queste tradizioni è di fondamenta­le importanza l’opera di Stefano Zamagni, economista dell’Università di Bologna e dal marzo scorso presidente della Pontificia Accademica delle Scienze Sociali su nomina di Papa Francesco. Egli scrive in «Responsabi­li. Come civilizzar­e il mercato» (Mulino, 2019): «Siamo alla vigilia di una nuova stagione imprendito­riale che si caratteriz­za sia per il rifiuto di un modello fondato sullo sfruttamen­to (della natura e dell’uomo) in favore di un modello centrato sulla logica della reciprocit­à, sia per lo sforzo di dare un senso all’attività di impresa, la quale non può ridursi a pensarsi come mera macchina da soldi. E’ una prospettiv­a che va oltre la nozione di responsabi­lità sociale dell’impresa e che vuole indirizzar­e l’azione economica – argomenta ancora Zamagni – alla vita buona in comune».

In questa prospettiv­a e nel quadro, ahinoi, di un’Italia bloccata, grande è la responsabi­lità delle nostre comunità locali.

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