IL CAPITALE ETICO E L’IMPRESA
Ècertamente un segno dei tempi la pubblicazione pochi giorni fa, negli Stati Uniti, della nuova dichiarazione della Business Roundtable sullo «scopo di un’impresa», che deve essere quello – sostiene l’organizzazione che raggruppa circa 200 grandi imprese Usa – di promuovere «un’economia capace di servire tutti gli americani» (e, sottinteso, non solo gli azionisti). Nel presentare il documento, il Corriere della Sera ha titolato: «La svolta etica del capitalismo» (20 agosto). Un segno dei tempi, dicevamo. Ma possiamo anche affermare che si tratti di una novità assoluta, soprattutto se guardiamo le cose da questo lato dell’Atlantico (Unione europea, Italia) e, ancor più in particolare, da queste nostre parti (Emilia, Trentino, Veneto)? Qui la risposta si fa più articolata perché la contrapposizione fra il «capitalismo degli azionisti» («shareholder») e il «capitalismo dei portatori di interesse» («stakeholder») non è nata oggi e ha una sua storia.
Se definire il primo è relativamente facile (gli azionisti sono i proprietari dell’impresa e l’obiettivo di quest’ultima è la massimizzazione del profitto nel loro esclusivo interesse), per definire il secondo occorre ampliare notevolmente la prospettiva. Torniamo così al documento della Business Roundtable che, rompendo una sua tradizione ultradecennale, introduce per la prima volta la categoria degli «stakeholder», ossia, di tutti coloro che sono portatori di un interesse nella vita dell’impresa.
Essi vengono elencati in quest’ordine: i clienti, i dipendenti, i fornitori, le comunità locali, gli azionisti. Certo, sono parole nuove e promettenti in un paese (capitalismo) come gli Stati Uniti che della «creazione di valore per gli azionisti» ha fatto, per decenni, un vero e proprio imperativo categorico. D’altro canto possiamo ragionevolmente affermare, tornando alla nostra domanda iniziale, come
nella nostra Europa e nella nostra Italia – tante volte criticate – queste parole non rappresentino delle novità assolute. E per fortuna, vien da aggiungere.
E’ almeno dai tempi del crollo del muro di Berlino che la contrapposizione sui «modelli di capitalismo» occupa un posto importante nel dibattito di policy.
Quello che Michel Albert, in un fondamentale libro di quegli anni (Capitalisme contre capitalisme, 1991), ha chiamato «modello renano» – contrapposto al «modello neo-americano» - rappresentava l’idea di un capitalismo fondato su imprese capaci di perseguire l’interesse di tutti gli stakeholder in un’ottica di medio-lungo periodo. Un capitalismo, ancora, che trovava nella Germania la sua massima interprete e si caratterizzava per una superiorità sia economica (la moneta forte, la manifattura tecnologicamente avanzata, ecc.) sia sociale (il welfare, il sistema della formazione tecnica, la cogestione, ecc.). E quello renano finiva così per rappresentare una sorta di modello ideale verso cui tendere in tutt’Europa.
Da allora a oggi, beninteso, molte cose sono cambiate un po’ in tutti i modelli di capitalismo e stabilire una superiorità degli uni sugli altri è esercizio assai difficile. Tuttavia, l’elenco degli impegni che le imprese statunitensi della Business Roundtable hanno preso per il prossimo futuro con se stesse («investire nei nostri dipendenti», «supportare le comunità nelle quali lavoriamo», e così via) appare una decisa oscillazione del pendolo verso il modello europeo/renano.
Un modello europeo che, se ci riferiamo alle nostre avanguardie imprenditoriali, ha una sua declinazione italiana e, più nello specifico, emiliano-romagnola, veneta,
Imprese Welfare e integrativi di molte nostre imprese vanno nella direzione di un nuovo capitalismo
trentina. Come altro codificare se non con l’espressione di «capitalismo etico» i tanti programmi di welfare aziendale portati avanti dalle migliori imprese (piccole, medie o grandi che siano) di questi nostri tre territori? I contratti integrativi aziendali con un premio, destinato a tutti i dipendenti, legato alle performance aziendali? Le straordinarie iniziative culturali e formative, rivolte in primis ai giovani, volute da tante imprese eccellenti mediante le loro Academy e Fondazioni? La forza del movimento cooperativo, che spazia dalle attività agricole e manifatturiere ai servizi sociali passando per banche e assicurazioni?
Sono solo alcuni grandi esempi, e altri se ne potrebbero aggiungere, ma molto resta da fare anche perché accanto ai comportamenti imprenditoriali virtuosi ce ne sono altri che la virtù l’hanno proprio dimenticata. L’elenco è tristemente noto: lavoro in nero, evasione fiscale, false cooperative solo per gestire appalti e subappalti, e anche qui gli esempi potrebbero proseguire.
Insomma, c’è un grande rimescolamento di carte nel capitalismo mondiale, come dimostrano la recentissima dichiarazione della Business Roundtable e l’eco internazionale che ha suscitato; un rimescolamento che va seguito e osservato senza però farsi prendere la mano, qui in Italia, dalla nostra proverbiale esterofilia. Abbiamo, infatti, nel nostro Paese e nelle nostre regioni tradizioni culturali e imprenditoriali che, qui e ora, vanno valorizzate compiutamente affinché possano dare origine a comportamenti emulativi.
Nel portare alla luce queste tradizioni è di fondamentale importanza l’opera di Stefano Zamagni, economista dell’Università di Bologna e dal marzo scorso presidente della Pontificia Accademica delle Scienze Sociali su nomina di Papa Francesco. Egli scrive in «Responsabili. Come civilizzare il mercato» (Mulino, 2019): «Siamo alla vigilia di una nuova stagione imprenditoriale che si caratterizza sia per il rifiuto di un modello fondato sullo sfruttamento (della natura e dell’uomo) in favore di un modello centrato sulla logica della reciprocità, sia per lo sforzo di dare un senso all’attività di impresa, la quale non può ridursi a pensarsi come mera macchina da soldi. E’ una prospettiva che va oltre la nozione di responsabilità sociale dell’impresa e che vuole indirizzare l’azione economica – argomenta ancora Zamagni – alla vita buona in comune».
In questa prospettiva e nel quadro, ahinoi, di un’Italia bloccata, grande è la responsabilità delle nostre comunità locali.