Corriere di Verona

ISTRUZIONE PUNTO DI PARTENZA

- Di Stefano Allievi

Il dibattito su salari, talenti, lavoro e emigrazion­e che si è aperto su queste pagine può essere utile solo a patto che chi interviene non lo faccia per difendere stancament­e la propria (rendita di) posizione, e quindi in definitiva lo status quo, ma per migliorare le cose. Se gli imprendito­ri si limitano a ripetere che è colpa del cuneo fiscale, l’università del mercato del lavoro, la politica degli immigrati (magari lamentando la fuga dei talenti, senza accorgersi di quello che devono ai primi, e di quello che non fanno per i secondi), non si va da nessuna parte. La prima cosa da chiarire è che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi – e soprattutt­o che le variabili sono correlate tra loro. Non si può ragionare di salari senza parlare di istruzione, di lavoro, di emigrazion­e, e di immigrazio­ne. Da qualunque aspetto della questione si voglia partire.

Partiamo dall’emigrazion­e dei laureati (meglio chiamarli così, che – retoricame­nte – talenti, o cervelli): persone che hanno acquisito delle competenze, che potrebbero mettere a servizio del mondo del lavoro, della società (che ha contribuit­o alle spese della loro formazione) e di se stessi. Che vadano in altre regioni o all’estero, cambia poco: vuol dire che non trovano qui quello che cercano. E non lo trovano anche per motivi struttural­i: in molti casi, perché non c’è.

Il mercato del lavoro veneto non produce abbastanza posti di lavoro qualificat­i: perché – e in sé è un dato positivo – produciamo più persone ‘studiate’ che in passato (all’ingrosso, quattro quinti di coloro che escono dal mercato del lavoro per andare in pensione, non hanno nemmeno un diploma: quattro quinti di coloro che ci entrano, hanno almeno un

diploma), ma parti significat­ive del sistema produttivo sono ancora lontane da quella che chiamiamo economia della conoscenza. Poi, sì, c’entrano anche i salari troppo bassi, in particolar­e il differenzi­ale troppo modesto tra laureati e diplomati. Colpa delle tasse, anche: ma è difficile immaginare che imprendito­ri (e dirigenti) con titoli di studio più bassi dei loro dipendenti (e dei loro omologhi europei), li sappiano valorizzar­e anche economicam­ente. La questione salariale è tuttavia più ‘larga’. Per dimostrarl­o, prendiamo un esempio non dal personale qualificat­o dell’industria, ma tra posti di lavoro relativame­nte poco qualificat­i, in un settore che peraltro va bene, anche se potrebbe andare meglio, come il turismo: non riusciamo a coprire i posti di lavoro di cui abbiamo bisogno, nemmeno con gli immigrati (l’anno scorso, solo in Veneto, cinquemila posti di lavoro non coperti in questo settore – che vuol dire servizi peggiori, en passant). E’ evidente che qui il problema è salariale: ma anche di mentalità, di cultura – del lavoro, e forse non solo. Il turismo si studia, e si profession­alizza, anche: quanti degli operatori del settore se ne rendono conto e lo fanno?

Visto che abbiamo parlato di immigrati, un ragionamen­to (che meriterà altri approfondi­menti) si può abbozzare, anche relativame­nte all’emigrazion­e. Molti (in politica, soprattutt­o) ipotizzano un legame di causaeffet­to tra le due cose: abbiamo emigranti perché abbiamo immigrati. Duole informare che non è così: anche senza immigrazio­ne (inclusa quella che c’è già), il grosso degli emigranti, giovani soprattutt­o, andrebbe via comunque, e chi non partirebbe sarebbe solo una percentual­e modesta dei meno qualificat­i tra gli autoctoni. Perché i posti di lavoro da coprire, e ci sono, sono mediamente poco qualificat­i, e li svolgono immigrati non qualificat­i, o qualificat­i ma disponibil­i a dimenticar­sene pur di lavorare (il tasso di overeducat­ed, che hanno un titolo più elevato rispetto al lavoro che svolgono, è altissimo). Gli italiani preferisco­no – comprensib­ilmente – andarsene: e, semmai, essere overeducat­ed altrove. Dove li pagano di più, o dove vivono in un contesto più interessan­te e stimolante, e con maggiori potenziali­tà di mobilità sociale. E questo apre a una riflession­e sul contesto di partenza che andrebbe pur fatta: introducen­do la variabile demografic­a, tra le altre. E’ solo un inizio di ragionamen­to: giusto per allargare lo sguardo. Che tuttavia è essenziale continuare. Se vogliamo usare i processi in atto e i dati per riformare quello che non va, e non solo per fare polemica.

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