ISTRUZIONE PUNTO DI PARTENZA
Il dibattito su salari, talenti, lavoro e emigrazione che si è aperto su queste pagine può essere utile solo a patto che chi interviene non lo faccia per difendere stancamente la propria (rendita di) posizione, e quindi in definitiva lo status quo, ma per migliorare le cose. Se gli imprenditori si limitano a ripetere che è colpa del cuneo fiscale, l’università del mercato del lavoro, la politica degli immigrati (magari lamentando la fuga dei talenti, senza accorgersi di quello che devono ai primi, e di quello che non fanno per i secondi), non si va da nessuna parte. La prima cosa da chiarire è che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi – e soprattutto che le variabili sono correlate tra loro. Non si può ragionare di salari senza parlare di istruzione, di lavoro, di emigrazione, e di immigrazione. Da qualunque aspetto della questione si voglia partire.
Partiamo dall’emigrazione dei laureati (meglio chiamarli così, che – retoricamente – talenti, o cervelli): persone che hanno acquisito delle competenze, che potrebbero mettere a servizio del mondo del lavoro, della società (che ha contribuito alle spese della loro formazione) e di se stessi. Che vadano in altre regioni o all’estero, cambia poco: vuol dire che non trovano qui quello che cercano. E non lo trovano anche per motivi strutturali: in molti casi, perché non c’è.
Il mercato del lavoro veneto non produce abbastanza posti di lavoro qualificati: perché – e in sé è un dato positivo – produciamo più persone ‘studiate’ che in passato (all’ingrosso, quattro quinti di coloro che escono dal mercato del lavoro per andare in pensione, non hanno nemmeno un diploma: quattro quinti di coloro che ci entrano, hanno almeno un
diploma), ma parti significative del sistema produttivo sono ancora lontane da quella che chiamiamo economia della conoscenza. Poi, sì, c’entrano anche i salari troppo bassi, in particolare il differenziale troppo modesto tra laureati e diplomati. Colpa delle tasse, anche: ma è difficile immaginare che imprenditori (e dirigenti) con titoli di studio più bassi dei loro dipendenti (e dei loro omologhi europei), li sappiano valorizzare anche economicamente. La questione salariale è tuttavia più ‘larga’. Per dimostrarlo, prendiamo un esempio non dal personale qualificato dell’industria, ma tra posti di lavoro relativamente poco qualificati, in un settore che peraltro va bene, anche se potrebbe andare meglio, come il turismo: non riusciamo a coprire i posti di lavoro di cui abbiamo bisogno, nemmeno con gli immigrati (l’anno scorso, solo in Veneto, cinquemila posti di lavoro non coperti in questo settore – che vuol dire servizi peggiori, en passant). E’ evidente che qui il problema è salariale: ma anche di mentalità, di cultura – del lavoro, e forse non solo. Il turismo si studia, e si professionalizza, anche: quanti degli operatori del settore se ne rendono conto e lo fanno?
Visto che abbiamo parlato di immigrati, un ragionamento (che meriterà altri approfondimenti) si può abbozzare, anche relativamente all’emigrazione. Molti (in politica, soprattutto) ipotizzano un legame di causaeffetto tra le due cose: abbiamo emigranti perché abbiamo immigrati. Duole informare che non è così: anche senza immigrazione (inclusa quella che c’è già), il grosso degli emigranti, giovani soprattutto, andrebbe via comunque, e chi non partirebbe sarebbe solo una percentuale modesta dei meno qualificati tra gli autoctoni. Perché i posti di lavoro da coprire, e ci sono, sono mediamente poco qualificati, e li svolgono immigrati non qualificati, o qualificati ma disponibili a dimenticarsene pur di lavorare (il tasso di overeducated, che hanno un titolo più elevato rispetto al lavoro che svolgono, è altissimo). Gli italiani preferiscono – comprensibilmente – andarsene: e, semmai, essere overeducated altrove. Dove li pagano di più, o dove vivono in un contesto più interessante e stimolante, e con maggiori potenzialità di mobilità sociale. E questo apre a una riflessione sul contesto di partenza che andrebbe pur fatta: introducendo la variabile demografica, tra le altre. E’ solo un inizio di ragionamento: giusto per allargare lo sguardo. Che tuttavia è essenziale continuare. Se vogliamo usare i processi in atto e i dati per riformare quello che non va, e non solo per fare polemica.