LA SCUOLA AL TEMPO DEI SOCIAL
Riaprono le scuole e già all’inizio mi trovo in imbarazzo: dico le studentesse o le «studenti»? E le «studente», va meglio? E’ evidente - inizio da qui – che il rispetto degli altri è necessario, lo dice la morale, certo, ma soprattutto conviene: rende i rapporti più proficui, sposta la contrapposizione sul piano della collaborazione, crea opportunità che nascono dal volgere le difese in aiuto.
Perché non si riesce più a insegnare una cosa tanto semplice? «Studenta» o «studentessa» non dovrebbe intaccare la sostanza. E se rivendico la mia mascolinità facendomi chiamare «poeto»?
Ci si può scherzare, ma è uno dei tanti punti emergenti di una questione più generale. La questione generale riguarda il fatto che l’accelerazione scientifico-tecnologica sta modificando alcuni caratteri millenari della nostra cultura, che riguardano tanto la quotidianità come la visione generale della vita.
Una questione generale che affida all’istruzione un compito enorme, all’interno degli indirizzi culturali del Paese, che interessa la conoscenza, le relazioni personali e la politica: le giovanissime generazioni sono l’unica vera possibilità e risorsa per ritracciare il sentiero del futuro.
Occorre ridestare la coscienza e la responsabilità della parola e del discorso.
Le tecnologie della comunicazione hanno permesso a chiunque di accedere al sistema di diffusione e ricezione di messaggi in via orizzontale, senza passaggi di controllo o assunzioni di responsabilità. La struttura gerarchica organizzata per canali diversificati, linguaggi specifici e accessi sorvegliati tende a dissolversi. Il nuovo sistema favorisce la diffusione di poche parole alla volta e, ben si sa, con pochissime parole non si può fare un ragionamento. Quello che un tempo era un impedimento - non avere le parole - è diventato un vantaggio: la battutaccia e l’insulto funzionano meglio e subito, sono più efficaci del ragionamento. Allora può accadere che chi non sa niente creda di sapere tutto, non per malizia, ma perché nella sua ignoranza veicola quelle quattro frasi che lo hanno persuaso. Pare che non ci sia più bisogno di medici, ingegneri, insegnanti, magistrati: chiunque abbia accesso alla comunicazione ne sa sempre di più. Insisto: chi crede di far parte dei grandi discorsi intellettuali e politici, perché riceve o «rituitta» un paio di frasi, non è un astuto manipolatore o un genio del male, è solo la vittima di un effetto ottico, il gioco di prestigio che il sistema attuale della comunicazione effettua sotto i suoi occhi. Pochi sono gli astuti manipolatori, tutti gli altri fanno «Oh!», cercando di ripetere l’abracadabra in proprio, con esiti penosi. A chi inizia il nuovo anno scolastico, alle alunne e agli alunni (la lingua italiana qui mi aiuta: «alunna» mi fa evitare di scrivere «studenta»), a loro soprattutto, prima ancora che ai loro genitori e ai professori, direi questo: riprendetevi il ragionamento. Riappropriatevi dei discorsi complessi nutriti di conoscenze certe e approfondite. Non dovete far contento nessuno. Fatelo per voi. Una frase che si trova dentro un libro è solo in apparenza una frase uguale a quella di un «tweet», e una parola di una poesia non è la stessa che accompagna un selfie, provate a rifletterci. E ogni volta che scrivete qualcosa, inviate una foto o ripetete qualcosa che vi è arrivato – a volte senza sapere bene da dove – fermatevi un momento a pensare perché lo fate. E’ un gesto della vostra vita, se ci pensate, come una stretta di mano o un calcio in faccia; e la vostra vita è importante.