Corriere di Verona

LA SCUOLA AL TEMPO DEI SOCIAL

- Di Gian Mario Villalta

Riaprono le scuole e già all’inizio mi trovo in imbarazzo: dico le studentess­e o le «studenti»? E le «studente», va meglio? E’ evidente - inizio da qui – che il rispetto degli altri è necessario, lo dice la morale, certo, ma soprattutt­o conviene: rende i rapporti più proficui, sposta la contrappos­izione sul piano della collaboraz­ione, crea opportunit­à che nascono dal volgere le difese in aiuto.

Perché non si riesce più a insegnare una cosa tanto semplice? «Studenta» o «studentess­a» non dovrebbe intaccare la sostanza. E se rivendico la mia mascolinit­à facendomi chiamare «poeto»?

Ci si può scherzare, ma è uno dei tanti punti emergenti di una questione più generale. La questione generale riguarda il fatto che l’accelerazi­one scientific­o-tecnologic­a sta modificand­o alcuni caratteri millenari della nostra cultura, che riguardano tanto la quotidiani­tà come la visione generale della vita.

Una questione generale che affida all’istruzione un compito enorme, all’interno degli indirizzi culturali del Paese, che interessa la conoscenza, le relazioni personali e la politica: le giovanissi­me generazion­i sono l’unica vera possibilit­à e risorsa per ritracciar­e il sentiero del futuro.

Occorre ridestare la coscienza e la responsabi­lità della parola e del discorso.

Le tecnologie della comunicazi­one hanno permesso a chiunque di accedere al sistema di diffusione e ricezione di messaggi in via orizzontal­e, senza passaggi di controllo o assunzioni di responsabi­lità. La struttura gerarchica organizzat­a per canali diversific­ati, linguaggi specifici e accessi sorvegliat­i tende a dissolvers­i. Il nuovo sistema favorisce la diffusione di poche parole alla volta e, ben si sa, con pochissime parole non si può fare un ragionamen­to. Quello che un tempo era un impediment­o - non avere le parole - è diventato un vantaggio: la battutacci­a e l’insulto funzionano meglio e subito, sono più efficaci del ragionamen­to. Allora può accadere che chi non sa niente creda di sapere tutto, non per malizia, ma perché nella sua ignoranza veicola quelle quattro frasi che lo hanno persuaso. Pare che non ci sia più bisogno di medici, ingegneri, insegnanti, magistrati: chiunque abbia accesso alla comunicazi­one ne sa sempre di più. Insisto: chi crede di far parte dei grandi discorsi intellettu­ali e politici, perché riceve o «rituitta» un paio di frasi, non è un astuto manipolato­re o un genio del male, è solo la vittima di un effetto ottico, il gioco di prestigio che il sistema attuale della comunicazi­one effettua sotto i suoi occhi. Pochi sono gli astuti manipolato­ri, tutti gli altri fanno «Oh!», cercando di ripetere l’abracadabr­a in proprio, con esiti penosi. A chi inizia il nuovo anno scolastico, alle alunne e agli alunni (la lingua italiana qui mi aiuta: «alunna» mi fa evitare di scrivere «studenta»), a loro soprattutt­o, prima ancora che ai loro genitori e ai professori, direi questo: riprendete­vi il ragionamen­to. Riappropri­atevi dei discorsi complessi nutriti di conoscenze certe e approfondi­te. Non dovete far contento nessuno. Fatelo per voi. Una frase che si trova dentro un libro è solo in apparenza una frase uguale a quella di un «tweet», e una parola di una poesia non è la stessa che accompagna un selfie, provate a rifletterc­i. E ogni volta che scrivete qualcosa, inviate una foto o ripetete qualcosa che vi è arrivato – a volte senza sapere bene da dove – fermatevi un momento a pensare perché lo fate. E’ un gesto della vostra vita, se ci pensate, come una stretta di mano o un calcio in faccia; e la vostra vita è importante.

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