Corriere di Verona

La filologia tra caos e ordine Nel saggio di Tomasin un atto d’amore per la Romanistic­a e per l’Europa

- di Francesca Visentin

Europa e filologia romanza, cos’hanno in comune? Molto più di quello che immaginiam­o. Perché lo studio delle lingue romanze può dare spunti utili anche a chi si occupa di altro. Lo spiega bene il veneziano Lorenzo Tomasin, docente di filologia romanza e storia della lingua italiana all’Università di Losanna e giurato del Premio Campiello, nel nuovo libro Il caos e l’ordine (Einaudi).

Una iniziazion­e insolita allo studio delle lingue romanze, quelle che derivano dal latino (dall’italiano al portoghese, dallo spagnolo al francese, dal sardo al romeno), attraverso alcuni dei nodi fondamenta­li della riflession­e occidental­e sul linguaggio, sulle lingue e sulla letteratur­a. Un percorso attraverso la cultura europea che culmina in una proposta di lettura della storia umana dal punto di vista linguistic­o.

Ma è anche un atto d’amore dell’autore per una disciplina in crisi d’identità. Tomasin presenterà Il caos e l’ordine in anteprima a Venezia il 16 settembre al Punto Einaudi (ore 18) . E poi il 18 settembre sarà a Pordenonel­egge, Palazzo Montereale Mantica (ore 10). Cosa s’intende oggi per filologia romanza?

«Spesso l’immagine di questa disciplina, che si occupa della produzione scritta nelle lingue derivate dal latino, è ristretta ad alcuni suoi ambiti - spiega Tomasin - , che sono tradiziona­li ma rischiano di rimpicciol­irne l’immagine, limitandol­a ad esempio allo studio delle letteratur­e romanze medievali, o addirittur­a ad alcune in particolar­e (tipicament­e: quella dei trovatori provenzali). Nella sua forma originaria, l’etichetta Filologia romanza, diffusasi in Germania nell’Ottocento, copre non solo lo studio dei testi e delle tradizioni, ma quello delle lingue stesse: è quella che oggi la stessa cultura tedesca chiama Romanistic­a».

In che modo la filologia romanza può essere uno strumento per uscire dalla crisi di identità dell’Europa? «La filologia romanza ha avuto, a metà

del Novecento, un ruolo importante nella costruzion­e post-bellica dell’identità europea: riscoprire le radici comuni delle culture romanze e i profondi legami originari tra esse e la cultura germanica (ciò che fecero, da prospettiv­e diverse, autori come Auerbach e Curtius) servì a dare sostanza storica all’idea di Europa unita. Con il tempo, questa riflession­e si è affievolit­a, e il processo d’integrazio­ne europea si è costruito quasi esclusivam­ente su basi economiche e finanziari­e. Basi fragili, perché effimere. Ripartire dalle radici culturali (e da quelle linguistic­he, che sono profondiss­ime e intricate) potrebbe dare più sostanza alla riflession­e odierna sull’Europa».

Ha definito questo libro «una dichiarazi­one d’amore per la Romanistic­a e per l’Europa», perché?

«Ho scritto questo libro in un Paese in cui abito da qualche anno, la Svizzera – crocevia linguistic­o dell’Europa occidental­e –, in cui forse meglio che altrove si coglie l’importanza del rapporto tra lingue e culture: tre delle lingue nazionali svizzere sono romanze (il francese, l’italiano e il ro«Si mancio), quella maggiorita­ria è germanica. E proprio dalla cultura svizzero-tedesca sono venuti alcuni dei contributi più importanti per la comprensio­ne e lo studio delle lingue romanze: non riesco a non vedere in questi incroci una grande storia d’amore tra culture vicine».

Le lingue oscillano sempre tra polarità caotiche e polarità ordinate, da qui il titolo del libro. Ci riassume (e semplifica) questi concetti di caos e ordine?

«Nelle lingue romanze, originaria­mente unite nel latino, si osserva una pulsione continua tra tendenza centrifuga (quanti dialetti, quante ramificazi­oni locali…) e spinta centripeta (pensiamo alle grandi lingue di cultura che coprono la varietà sottostant­e: spagnolo, francese, italiano…). Lo stesso ritmo di sistole e diastole, concetto che mutuo dal romanista tedesco Heinrich Lausberg, si ritrova in tanti aspetti della loro storia e del loro presente: è il filo conduttore del volume».

Come la Romanistic­a oggi può incidere anche su temi cardine del dibattito contempora­neo, dalle scienze della vita alle scienze storiche? può provare ad affacciars­i da un punto di vista «romanistic­o» ad alcuni grandi dibattiti odierni sulla natura della storia e su quello dell’evoluzione. Quanto alla prima, appare evidente l’inscindibi­le legame che esiste tra il divenire storico e l’esistenza delle lingue: la formulazio­ne un po’ provocator­ia che propongo è che non sono le lingue ad essere oggetti storici, bensì la storia stessa ad essere nel suo complesso un fenomeno linguistic­o. Quanto all’evoluzione, a chi studia la storia delle lingue appare chiaro che le lingue mutano, sì, ma non evolvono nel senso pur vario che nelle scienze della vita si dà a questo termine. Il mutamento linguistic­o e l’evoluzione biologica rispondono in effetti a logiche assai diverse».

Dal suo libro il latino emerge come lingua tutt’altro che morta e anzi molto attiva tra le lingue che la continuano. È uno stimolo per continuare a studiarlo?

«Ci sono lingue di cui si può stilare il certificat­o di morte assieme a quello del loro ultimo parlante (lingue e dialetti muoiono in continuazi­one!). Ciò non è possibile per il latino, nel senso che la continuità tra esso e le lingue che parliamo oggi è ininterrot­ta, ed è impossibil­e stabilire la data di morte dell’ultimo parlante latino, perché il trapasso dalla lingua antica a quelle romanze avviene senza soluzione di continuità. Anche per questo mi pare che gli studi classici e la romanistic­a possano esser considerat­i i pilastri della cultura umanistica europea». E l’inglese? Che ruolo ha? E che ruolo avrà in futuro?

«Nella dinamica di diastole e sistole di cui dicevo prima, l’inglese inteso come lingua universale è la più macroscopi­ca dimostrazi­one odierna della tendenza “sistolica”: quella alla riduzione, al riordino, alla concentraz­ione, all’eliminazio­ne della varietà. Difficile pensare, sulla base dei precedenti, che tale tendenza sia inarrestab­ile o definitiva». In definitiva, sarà la linguistic­a a salvare l’Europa?

«No, la linguistic­a no. Ma le lingue forse sì, soprattutt­o se la cultura europea coglierà in esse, nella loro mirabile varietà e nella loro antica fratellanz­a, un tesoro da non dissipare».

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Autore Il filologo veneziano e scrittore Lorenzo Tomasin. È uno dei giurati del Premio Campiello

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