La filologia tra caos e ordine Nel saggio di Tomasin un atto d’amore per la Romanistica e per l’Europa
Europa e filologia romanza, cos’hanno in comune? Molto più di quello che immaginiamo. Perché lo studio delle lingue romanze può dare spunti utili anche a chi si occupa di altro. Lo spiega bene il veneziano Lorenzo Tomasin, docente di filologia romanza e storia della lingua italiana all’Università di Losanna e giurato del Premio Campiello, nel nuovo libro Il caos e l’ordine (Einaudi).
Una iniziazione insolita allo studio delle lingue romanze, quelle che derivano dal latino (dall’italiano al portoghese, dallo spagnolo al francese, dal sardo al romeno), attraverso alcuni dei nodi fondamentali della riflessione occidentale sul linguaggio, sulle lingue e sulla letteratura. Un percorso attraverso la cultura europea che culmina in una proposta di lettura della storia umana dal punto di vista linguistico.
Ma è anche un atto d’amore dell’autore per una disciplina in crisi d’identità. Tomasin presenterà Il caos e l’ordine in anteprima a Venezia il 16 settembre al Punto Einaudi (ore 18) . E poi il 18 settembre sarà a Pordenonelegge, Palazzo Montereale Mantica (ore 10). Cosa s’intende oggi per filologia romanza?
«Spesso l’immagine di questa disciplina, che si occupa della produzione scritta nelle lingue derivate dal latino, è ristretta ad alcuni suoi ambiti - spiega Tomasin - , che sono tradizionali ma rischiano di rimpicciolirne l’immagine, limitandola ad esempio allo studio delle letterature romanze medievali, o addirittura ad alcune in particolare (tipicamente: quella dei trovatori provenzali). Nella sua forma originaria, l’etichetta Filologia romanza, diffusasi in Germania nell’Ottocento, copre non solo lo studio dei testi e delle tradizioni, ma quello delle lingue stesse: è quella che oggi la stessa cultura tedesca chiama Romanistica».
In che modo la filologia romanza può essere uno strumento per uscire dalla crisi di identità dell’Europa? «La filologia romanza ha avuto, a metà
del Novecento, un ruolo importante nella costruzione post-bellica dell’identità europea: riscoprire le radici comuni delle culture romanze e i profondi legami originari tra esse e la cultura germanica (ciò che fecero, da prospettive diverse, autori come Auerbach e Curtius) servì a dare sostanza storica all’idea di Europa unita. Con il tempo, questa riflessione si è affievolita, e il processo d’integrazione europea si è costruito quasi esclusivamente su basi economiche e finanziarie. Basi fragili, perché effimere. Ripartire dalle radici culturali (e da quelle linguistiche, che sono profondissime e intricate) potrebbe dare più sostanza alla riflessione odierna sull’Europa».
Ha definito questo libro «una dichiarazione d’amore per la Romanistica e per l’Europa», perché?
«Ho scritto questo libro in un Paese in cui abito da qualche anno, la Svizzera – crocevia linguistico dell’Europa occidentale –, in cui forse meglio che altrove si coglie l’importanza del rapporto tra lingue e culture: tre delle lingue nazionali svizzere sono romanze (il francese, l’italiano e il ro«Si mancio), quella maggioritaria è germanica. E proprio dalla cultura svizzero-tedesca sono venuti alcuni dei contributi più importanti per la comprensione e lo studio delle lingue romanze: non riesco a non vedere in questi incroci una grande storia d’amore tra culture vicine».
Le lingue oscillano sempre tra polarità caotiche e polarità ordinate, da qui il titolo del libro. Ci riassume (e semplifica) questi concetti di caos e ordine?
«Nelle lingue romanze, originariamente unite nel latino, si osserva una pulsione continua tra tendenza centrifuga (quanti dialetti, quante ramificazioni locali…) e spinta centripeta (pensiamo alle grandi lingue di cultura che coprono la varietà sottostante: spagnolo, francese, italiano…). Lo stesso ritmo di sistole e diastole, concetto che mutuo dal romanista tedesco Heinrich Lausberg, si ritrova in tanti aspetti della loro storia e del loro presente: è il filo conduttore del volume».
Come la Romanistica oggi può incidere anche su temi cardine del dibattito contemporaneo, dalle scienze della vita alle scienze storiche? può provare ad affacciarsi da un punto di vista «romanistico» ad alcuni grandi dibattiti odierni sulla natura della storia e su quello dell’evoluzione. Quanto alla prima, appare evidente l’inscindibile legame che esiste tra il divenire storico e l’esistenza delle lingue: la formulazione un po’ provocatoria che propongo è che non sono le lingue ad essere oggetti storici, bensì la storia stessa ad essere nel suo complesso un fenomeno linguistico. Quanto all’evoluzione, a chi studia la storia delle lingue appare chiaro che le lingue mutano, sì, ma non evolvono nel senso pur vario che nelle scienze della vita si dà a questo termine. Il mutamento linguistico e l’evoluzione biologica rispondono in effetti a logiche assai diverse».
Dal suo libro il latino emerge come lingua tutt’altro che morta e anzi molto attiva tra le lingue che la continuano. È uno stimolo per continuare a studiarlo?
«Ci sono lingue di cui si può stilare il certificato di morte assieme a quello del loro ultimo parlante (lingue e dialetti muoiono in continuazione!). Ciò non è possibile per il latino, nel senso che la continuità tra esso e le lingue che parliamo oggi è ininterrotta, ed è impossibile stabilire la data di morte dell’ultimo parlante latino, perché il trapasso dalla lingua antica a quelle romanze avviene senza soluzione di continuità. Anche per questo mi pare che gli studi classici e la romanistica possano esser considerati i pilastri della cultura umanistica europea». E l’inglese? Che ruolo ha? E che ruolo avrà in futuro?
«Nella dinamica di diastole e sistole di cui dicevo prima, l’inglese inteso come lingua universale è la più macroscopica dimostrazione odierna della tendenza “sistolica”: quella alla riduzione, al riordino, alla concentrazione, all’eliminazione della varietà. Difficile pensare, sulla base dei precedenti, che tale tendenza sia inarrestabile o definitiva». In definitiva, sarà la linguistica a salvare l’Europa?
«No, la linguistica no. Ma le lingue forse sì, soprattutto se la cultura europea coglierà in esse, nella loro mirabile varietà e nella loro antica fratellanza, un tesoro da non dissipare».