Corriere di Verona

Nei boschi ...di Mauro

- di Eugenio Tassini foto di Massimo Sestini

«Dicono che un anno fa sono morti milioni di alberi, 16 milioni. Ma chi li ha contati? Comunque, noi qui in montagna lo sappiamo: gli alberi tornano. Se venivate nel 1963, il Vajont aveva fatto piazza pulita della valle. C’erano le ossa della terra scoperte, tutto era giallo e fango, Dopo 56 anni, boschi enormi. Avevano detto che ci sarebbero voluti cento anni. Non era vero, ne bastano cinquanta». Per parlare con Mauro Corona di alberi, soprattutt­o dei suoi alberi un anno dopo la tempesta bisogna venire qui, in Val Zemola. Una strada larga come una automobile fatta soltanto di tornanti, un po’ asfaltata, un po’ bianca, un po di cemento per quando piove o nevica e che arriva a un rifugio, Casera Mela. Il suo rifugio, da quando era ragazzino. Da qui si domina la valle, davanti c’è il Porgèit, che è stata la palestra del giovane Corona alpinista. A sinistra il Duranno, la prima delle Dolomiti, che quando il sole cala un po’ e i raggi la fendono sembra fatta d’argento e che lui ancora scala, o conta di scalare la mattina dopo se la sera prende la malinconia o la voglia di libertà. Davanti e dietro i boschi che ha raccontato in tanti libri, ora pieni di centinaia di cervi che lanciano i loro bramiti d’amore. Sui prati a sinistra di Casera Mela i prati sono ancora pieni di tronchi di alberi venuti giù, o di ceppi e radici di quelli pericolant­i e già tagliati.

Siamo qui a cercare la verità su questi alberi, e anche un po’ su di noi. Sul penultimo tornante c’è un tronco circondato da una telaio di ferro diventato un Cristo. Non è ancora finito. Corona lo lavora con una motosega. La base è circondata da trucioli. «Era un larice, era l’albero sulla curva. Un’apparizion­e. Io venivo su da ragazzo col papà di Mosè, che ha ereditato il rifugio». Si ferma, indica due foto in bianco e nero attaccate alla parete. Due ritratti. Due uomini entrambi con la barba e con uno sguardo severo. «Sono loro, il mio papà a sinistra, il papà di Mosè a destra. Erano cugini. Noi si veniva con le slitte. E appariva questo signore, questo albero. L’ho visto da bambino, io facevo le stagioni di malga qui. C’erano quattro malghe, adesso sono in disuso. Questo era la nostra Amazonia. Con mio padre venivamo a fare l’erba, a tagliare la legna e a caccia. Mi sono detto: io ho settanta anni, non so quanto campo ancora, ma questa figura ieratica che accoglie la gente mi fa vedere che l’albero è ancora lì. Non averlo tagliato del tutto e bruciato, perché quando bruci rimane cenere, è un modo per averlo ancora lì per me. Certo, uno può dire che sono poetiche decadenti. Può darsi, ma se mi aiutano a stare in piedi, ad alzarmi la mattina e a dire vado fino a Casera Mela e vedo il larice, il Duranno, i boschi... Si vive non solo di materia, si vive anche di sogni, si vive anche cercando di fermare una cosa perché rimanga.

Gli alberi tornano: dopo il Vajont dicevano che ci volevano cento anni Ne sono bastati cinquanta

E non perché lei ti sfugga. Ma perché sei tu che stai andando verso la morte. Sono illusioni, ma perché privarsene?»

Noi che siamo di città abbiamo riscoperto gli alberi quando hanno cominciato a cadere, travolti dalle regole del nuovo clima. Prima sembravano eterni. Se a qualche sindaco veniva in mente di tagliarli, magari per far un parcheggio ma anche soltanto perché malati, subito nascevano comitati. Persone che si incatenava­no all’albero. Era soltanto pochi anni fa. Forse pensavamo a una natura immobile, e a noi che danziamo intorno. «Io ho umanizzato tutta la natura, anche quella montagna che sta di fronte e che ho scalato non so più quante volte. Ma il Duranno è una massa di pietre. L’albero, o la montagna, il tramonto, il mare non si guarda, non dice che è bello siamo noi che lo facciamo. E dunque noi siamo albero, siamo montagna, siamo mare, siamo tramonto. Quando facciamo del male alla natura facciamo male a noi. È che non ce ne frega niente. Uno si fa del male bevendo come faccio io. Un altro si fa del male distruggen­do. È importante sapere che noi siamo l’erba, il bosco, l’albero, la montagna, il mare, il deserto. La mela non esiste. Ci vuole la mela e un palato che gusta».

Ma qui il problema è un altro, e Mauro Corona lo sa bene. È che a noi la natura non serve più, non è più utile al nostro sostentame­nto, alla nostra vita quotidiana. Non andiamo nel bosco a far legna, andiamo all’outlet a comprare pellet. «Una volta i cacciatori si inginocchi­avano quando avevano ucciso il camoscio, se lo avevano ferito lo andavano a cercare nel bosco anche per un mese. I montanari tagliavano gli alberi, quelli giusti, per lavoro. Mancando questa necessità non c’è più cultura e non c’è più affetto per la natura. Dovremmo mandare nelle scuole elementari, dove crei gli uomini di domani, le guide alpine, i contadini, i boscaioli, gli artigiani i montanari. Anche i cacciatori e lo so che oggi è scandaloso dirlo, ma nessuno come un cacciatore può dirti come trovare l’acqua, orientarti, dove dormire se non hai un sacco a pelo, come vedere di notte se non hai la lampadina. A insegnare loro che non c’è uno stacco profondo fra loro e la natura, che siamo tutt’uno. Invece portano i bambini sulla neve e non gliela fanno neanche toccare. Gli mettono addosso gli scafandri. Ma la neve deve ghiacciare, crea gli anticorpi, Ti deve toccare, ti palpa, ti sfiora. Cè una valle che separa gli uomini di oggi dalla natura».

E oggi? «Oggi c’è un ambientali­smo esasperato. Non puoi più toccare l’erba, non puoi tagliare gli alberi. La natura va usata, in maniera intelligen­te. Lo diceva Rigoni Stern» E invece. «Invece oggi passano sui sentieri e se c’è un ramo di traverso non lo spostano Eppure si rendono conto che ti fa inciampare. Ma non lo tolgono. Sì, dovremmo ricomincia­re dalle scuole. C’è una bella fiaba di Borges e Casares nel loro Bestiario. racconta di un uccello che vola all’indietro. Perché non gli interessa tanto sapere dove sta andando ma ricordare da dove è partito. Ai ragazzi oggi non gli interessa conoscere da dove sono partiti i genitori o i nonni. E si aspettano dalla natura il tutto pronto». Ma non bisogna raccontars­i favole. Il nostro rapporto con la natura è cambiato, la tecnologia c ha semplifica­to la vita ma ce l’ha anche travolta. E qualche dubbio viene anche a Corona. «Anche solo cinquanta anni fa per fare una travatura dovevi trovare il larice, tagliarlo in calo di luna, su terreno magro. Adesso hanno il lamellare, che tiene mille volte in più il peso di un trave. Li seccano nei forni, e della luna non importa nulla. Fanno archi di palazzetti dello sport o di stadi che sono lunghi ottanta metri e indistrutt­ibili. Mi è crollata tutta la poetica di mio nonno e del calo di luna. Posso solo tramandarl­a, come sapere antico da ricordare per onorare coloro che sono passasti prima di noi, a provare, a cercare a sperimenta­re. Oggi ci sono tanti poeti del bosco, ce ne era l’uno l’altro giorno che ne registrava con marchingeg­ni sofisticat­issimi le voci. Io ho scritto 21 anni fa Le

voci del bosco. L’ho scritto perché avvertivo che c’era un vuoto, mancava il sentimento, della e con la natura. E forse l’ho anche cavalcato. Però adesso tutti abbraccian­o alberi. Sono cagate. Non è che se abbracci un albero guarisci o ti senti meglio.»

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Ritratti Mauro Corona nel bosco davanti al rifugio Casera Mela e, sotto a sinistra, al lavoro con la motosega alla scultura che sta realizzand­o sul tornante della strada che porta al rifugio con il tronco di un larice spezzato dalla tempesta lo scorso anno in Val Zemola Nell’altra pagina Corona e uno dei tronchi degli alberi caduti
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