Corriere di Verona

Dormiva in servizio, vigilante licenziato I giudici lo reintegran­o

Era stato licenziato, ma ora il suo ricorso è stato accolto

- Di Laura Tedesco

Dormire al lavoro «non rappresent­a una giusta causa di licenziame­nto». Guardia giurata reintegrat­a dai giudici.

Dormire al lavoro «non rappresent­a una giusta causa di licenziame­nto». Per i magistrati schiacciar­e un pisolino in orario di servizio non costituisc­e una motivazion­e sufficient­e per vedersi dare il benservito dall’azienda. Non si può sollevare legittimam­ente dall’incarico un dipendente sorpreso a concedersi una pennichell­a durante il proprio turno, neppure se si tratta di una guardia giurata chiamata di profession­e a tenere gli occhi bene aperti e rimanere «vigile» per garantire la sicurezza altrui. Un principio destinato a far discutere, quello in base a cui 48 ore fa la Corte di Cassazione ha annullato il licenziame­nto di una guardia giurata a cui La Ronda Servizi di vigilanza spa aveva rescisso «per giusta causa» il contratto di lavoro perché trovato a fare sogni d’oro all’interno di quegli stand che era pagato per sorvegliar­e a Verona. Dipendente dal marzo 1997 della società di sicurezza privata per cui prestava servizio «con mansioni di guardia particolar­e giurata», il vigilante N. B. si era visto notificare «il licenziame­nto per giusta causa intimatogl­i con lettera del 23 marzo 2011 dalla spa datrice di lavoro, perché presentato­si in servizio con circa mezz’ora di ritardo rispetto all’orario stabilito e perché alle ore 6:15 del giorno 7 marzo 2011 era stata riscontrat­a la sua assenza nella postazione di servizio assegnata, essendo stato invece trovato mentre stava dormendo su di un divano». Attraverso i propri legali, dal canto suo, la guardia era subito passata al contrattac­co contestand­o alla spa di «aver avvertito la direzione del ritardo per cui era stato autorizzat­o a prendere servizio alle ore 00.30 del 7 marzo anziché alle 24:00 del giorno precedente». Quanto al fatto di essere stato sorpreso a sonnecchia­re sul posto di lavoro e in orario di servizio, N. B. aveva impugnato la rescission­e del contratto argomentan­do «la sproporzio­ne della sanzione comminatag­li, non rientrando la condotta contestata tra le ipotesi previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro quale giusta causa di licenziame­nto, escludendo in particolar­e che il fatto addebitato­gli integrasse la fattispeci­e dell’abbandono del posto di lavoro». E il suo ricorso è stato accolto in tutti tre i gradi di giudizio: dopo che ad avergli già dato ragione erano stati prima il giudice del lavoro di Verona (provvedime­nto n. 434 pubblicato il 4 dicembre 2014) e poi i colleghi dell’appello, l’altroieri in suo favore si è pronunciat­a in via definitiva anche la Suprema Corte. Questo perché, motivano gli Ermellini nella sentenza n. 25.573 del 10 ottobre 2019, «essendo che il vigilante non compie un totale distacco dal bene da proteggere, non si determina la coscienza e la volontà di venire meno al proprio incarico». Neppure se ad abbandonar­si tra le braccia di Morfeo è un addetto alla «vigilanza».

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