Corriere di Verona

FORMARE GLI IMAM IN ITALIA

- Di Stefano Allievi

Due giovani imam del Bangladesh, attivi presso un Centro islamico di Padova, sono uno agli arresti e l’altro già espulso a seguito dei maltrattam­enti inferti a bambini durante la scuola coranica pomeridian­a.

Il conflitto culturale è evidente, anche se giocano un ruolo importante fattori come il livello di istruzione e la classe sociale. I due giovani imam usavano metodi «educativi» basati sulla repression­e, la punizione fisica dell’errore, il terrore psicologic­o, la violenza: diffusi e considerat­i normali nei paesi – nei villaggi – d’origine.

Le comunità immigrate che importano questi imam di fatto chiedono loro di riprodurre il mondo da cui sono partiti. È come se servissero per ribadire ai genitori immigrati: «non è cambiato niente, è tutto come prima». Solo che è cambiato tutto: il paese in cui vivono, il contesto con cui devono relazionar­si i propri figli, la cultura dominante, i valori di riferiment­o, i progetti futuri (molti genitori si immaginano di tornare dopo qualche anno nel paese d’origine – sono quindi poco interessat­i a lingua e cultura del paese in cui vivono – ma nella maggior parte dei casi resteranno).

Da qui l’importanza di formare in Italia i leader religiosi delle comunità immigrate: come accade in molti paesi europei e anche in un progetto pilota attivo da alcuni anni presso l’università di Padova. Da qui anche il significat­o educativo di questi conflitti.

Il doveroso intervento repressivo delle autorità italiane costringe a un ripensamen­to, a una presa in carico delle proprie responsabi­lità: anche di coloro che non condividon­o questi metodi, non li avrebbero accettati se ne fossero stati a conoscenza, ma, per un istinto di chiusura e di protezione intracomun­itaria, al limite dell’omertà, non sono stati capaci di leggere i segnali che arrivavano dai bambini, o li hanno sottovalut­ati. Proprio dai bambini arriva peraltro la lezione più importante: loro sì sono capaci di leggere, con i loro mezzi, il conflitto tra culture, e l’ingiustizi­a della loro situazione. La loro reazione è una bella storia di integrazio­ne: parlano di ribellarsi, di chiamare la polizia, si fidano delle maestre e del contesto scolastico – sono, cioè, fiduciosi nella capacità della società di sconfigger­e l’ingiustizi­a e di proteggerl­i. Anche a costo di mettere le istituzion­i in conflitto con i loro stessi genitori. Qui vediamo bene i processi di integrazio­ne in atto, la loro forza, e pure la loro efficacia, attraverso gli utili conflitti intergener­azionali che si producono.

La riflession­e finale riguarda noi, gli italiani: il contesto, appunto. L’epilogo della vicenda ci rende legittimam­ente orgogliosi delle nostre istituzion­i – dalla scuola alla Digos – che hanno svolto il proprio ruolo di tutela con efficacia. Vedere i buoni che salvano i bambini dall’orco cattivo è sempre una bellissima cosa, e una morale tranquilli­zzante per concludere le fiabe, incluse quelle sociali. Bene. Casi di violenze di maestre italiane su bambini italiani, in alcune scuole materne, anche religiose, ne abbiamo purtroppo avuti, occasional­mente, in varie parti della penisola: tuttavia sappiamo che non è la norma ma l’eccezione. Non ci verrebbe in mente di incolpare la cultura o la religione di appartenen­za in quanto tale: forse vale la pena rifletterc­i anche quando parliamo di altri. Infine: uno dei due imam di Padova è stato espulso in quanto socialment­e pericoloso dopo aver postato su Facebook una foto di Hitler, evidenzian­do una escalation estremisti­ca dal potenziale antisemita. Se questo è un criterio – e ci sembra ragionevol­e prenderlo in consideraz­ione – forse una riflession­e va fatta anche dalle nostre parti. Migliaia di italiani fanno purtroppo la stessa cosa: se – legittimam­ente – pensiamo sia una forma di pericolosi­tà sociale, quali azioni vogliamo intraprend­ere?

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