La vittima e il Nobel, donne contro la violenza
La violenza sulle donne e la giustizia lacunosa sono state al centro di due incontri. Una vittima ha raccontato la sua storia. Ieri a Verona anche Shirin Ebadi, Nobel per la pace. «Non esiste Stato democratico se non c’è il diritto alla difesa», le sue parole.
Sono vent’anni che l’Onu ha istituito la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, eppure il femminicidio continua a esistere. Lo testimoniano i 92 casi di f registrati negli ultimi 12 mesi solo in Italia, secondo il dossier Viminale. Una ogni 3 giorni.
«Se non posso averti, allora meglio ucciderti» sono le parole che si è sentita ripetere Barbara Bartolotti nel dicembre del 2003 dal suo aggressore, Giuseppe Perrone, mentre la colpiva con martello, calci, pugni, mentre la pugnalava e le dava fuoco. Un delitto ignobile, da cui lei si è salvata fingendosi morta, lasciando le fiamme ardere sulla sua carne in silenzio, ferma e immobile, nella speranza che il suo aguzzino si allontanasse.
È stata la stessa Barbara a raccontare la sua storia, ieri, invitata dalla commissione pari opportunità della provincia di Verona, come esempio di coraggio, forza e dignità. «Libera di vivere» è il nome della sua associazione, fondata per sensibilizzare sul tema e dare supporto. «Avevo 29 anni, lavoravo in un’impresa edile a Palermo. All’epoca ero già sposata con mio marito Francesco, madre di due figli e incinta del terzo – racconta -. Un giorno un collega mi chiese di parlare: non mi aveva mai dato segni di squilibrio né mi aveva mai corteggiato, quindi non avevo alcun motivo di preoccuparmi».
Eppure quell’apparente bravo ragazzo usò martello e fendente, uccidendo il bimbo nel suo grembo, fino a cospargerla di combustibile agricolo. Lui tornò a sedersi in auto per guardarla divincolarsi tra le fiamme e il suo istinto di sopravvivenza le suggerì il da farsi: «sono rimasta ferma, mentre il fuoco mi mangiava la carne e solo quando si è allontanato ho provato a spegnermi con le mie stesse mani. Ho scavalcato due metri e mezzo di filo spinato che separava l’autostrada dalla statale, lasciando brandelli dei pelle, e ho iniziato a correre in senso opposto. Ero una candela nera che spruzzava sangue: la gente non sapeva cosa fossi, se un animale ferito o cos’altro. Ho visto l’indifferenza e la paura, finché due ragazzi non si sono fermati».
Uscì dal coma dieci giorni dopo esser entrata al pronto soccorso, passando poi per il Centro Grandi Ustionati dell’ospedale di Palermo e sottoponendosi a 27 interventi, ma con il segno indelebile dell’orrore subito. Eppure quello che più sciocca di questa storia è l’epilogo: Perrone, reo confesso, ricevette una pena di 21 anni, tramutata in 4 anni di arresti domiciliari, cancellati poi dall’indulto. Oggi lui lavora in banca, è sposato con la fidanzata di allora e ha due figli.
Ed è proprio sul tema della giustizia lacunosa che si è incentrato il congresso di ieri «Avvocate per i diritti umani» organizzato dall’Università di Verona e dall’Ordine degli avvocati di Verona: «Il nostro ordinamento tenta di proteggere le donne, ma non si batte a sufficienza» chiosa il prorettore Donata Gottardi.
«Non esiste Stato democratico se non c’è il diritto alla difesa» le parole da incorniciare di Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003, primo giudice donna in Iran nel 1969, carica da cui venne destituita dopo la rivoluzione khomeinista del 1979 diventando un’attivista dei diritti umani: «Bisogna lottare contro la cultura patriarcale, che significa superare la lettura maschilista di leggi e religione. Perché la violenza si approfitta di tutto, anche delle leggi e della religione, manifestandosi in forme diverse. Come chi dice che la donna è inferiore perché lo dicono le sacre scritture o che l’infibulazione sia legittima o che costringe le vedove indiane senza figli a rasarsi e restare isolate. Perché legittimiamo questa disuguaglianza? Eppure ogni uomo, anche il più violento, è nato da una donna. La lotta alla cultura patriarcale deve iniziare fin da bambini. Finché non ci saranno gli stessi diritti, ci sarà violenza nel mondo».
Per tener acceso l’impegno di combattere la violenza, la scuola di osteopatia Eom di Mozzecane ha aderito all’iniziativa «Posto occupato»: una sedia coperta da un drappo rosso resterà vuota perché occupata simbolicamente da una delle tante ragazze che avrebbero voluto studiare e sognare un futuro, ma non potranno più farlo.
Agguato «Se non posso averti, allora meglio ucciderti» Poi i colpi e le fiamme