Gli ebrei ad Asolo
«Messaggi in bottiglia» (Cleup) ripercorre la vicenda di 80 persone in fuga dagli ustascia durante la Seconda Guerra Mondiale
«Sono stato cacciato dal mio paese. Insegnavo in una scuola per bambini internati, ricevevo le notizie della BBC dalla nostra padrona di casa, la signora Malipiero, moglie inglese del celebre compositore. Ho letto Dos Passos e Steinbeck in italiano, giocato a calcio con monaci armeni. Ho scritto manifesti politici, li ho messi in alcune bottiglie e li ho seppelliti nei campi. È stato un interludio di puro romanticismo giovanile nel mezzo di una guerra terribilmente crudele.».
Questa Ode ad Asolo fu composta in lingua inglese da Jasha Levi, giornalista e scrittore ebreo di successo, nato a Sarajevo, americano dal 1956, internato ventenne nello storico borgo della Marca. Non sappiamo se quei messaggi in bottiglia siano mai stati trovati ma, in qualche modo, il loro contenuto è comunque riemerso grazie al prezioso lavoro di Vittorio Zaglia, autore del volume Messaggi in bottiglia. Ebrei stranieri ad Asolo (Cleup, 150 pp., 20 euro).
Uno degli aspetti meno indagati della persecuzione ebraica prima e durante la Seconda guerra mondiale è il cosiddetto «internamento libero» a cui furono costretti quasi 4.000 ebrei stranieri, in massima parte croati, che, cercando la salvezza dai nazisti e dagli ustascia, loro feroci emuli, s’erano trasferiti nei territori occupati dall’esercito italiano. Di lì furono condotti in Italia, sottoposti ad obbligo di domicilio coatto e privati di molte libertà personali. Per le leggi italiani erano infatti solamente degli apolidi, una condizione che toglieva loro ogni protezione e diritto. Di essi ben 1.240 giunsero in Veneto, soprattutto in provincia di Vicenza (più di 600), Rovigo
(120) e Treviso (356). Quasi 80, per la massima parte provenienti da Zagabria, furono alloggiati ad Asolo. Il primo scaglione di 50 persone arrivò in città il 30 novembre del 1941 a bordo di un autocarro. Tra essi vi era la famiglia dell’avvocato Ziga Neumann, eminente rappresentante della comunità ebraica zagabrese, membro della locale Organizzazione Sionista e capo del Jewish Foundation Fund. A riceverli in Municipio fu il podestà Ernesto Pasini. Pasini apparteneva ad una delle famiglie asolane più in vista.
Iscritto al Partito Fascista sin da giovane era comunque un moderato, di formazione liberale. Suo figlio, Angelo, fu peraltro uno dei protagonisti della Resistenza nella Pedemontana con il nome di battaglia «Longo».
Nelle sue memorie Joseph Konforti, genero di Neumann, descrive Pasini come «un uomo alto e grassoccio, vestito elegantemente, che ci interrogò, ci spiegò la nostra posizione ufficiale, elencando quali sarebbero stati i nostri diritti ed i nostri doveri». Gli internati non potevano uscire di casa prima dell’alba, né rincasare dopo il tramonto; potevano circolare solo nei confini del centro storico e non era permesso loro trattenersi a lungo in esercizi pubblici. Per l’alloggio era preferibile l’ospitalità in case private. E gli asolani? Come accolsero gli abitanti di Asolo questi ospiti così sfortunati? Ricorda il figlio di Konforti: «Dopo anni di persecuzione da parte di tedeschi e croati, per la prima volta i miei genitori trovarono ad Asolo persone che li rispettarono e che diedero loro finalmente l’impressione di essere ancora considerati esseri umani. Nonostante una serie di pesanti limitazioni, solo il fatto di uscire per strada e sentirsi dare il «buongiorno» dai vicini di casa rappresentò un grande cambiamento. Il fornaio quando poteva allungava ai miei una pagnotta in più o una fetta di focaccia». La tragica vicenda degli internati ad Asolo ha un lieto fine: guidati da Ziga Neumann, tutti riuscirono a salvarsi dall’arresto dopo l’8 settembre del 1943, chi fuggendo al Sud, chi verso la Svizzera. Neumann scriverà nel testamento: «Noi ci siamo dati un solo compito: sopravvivere!» E sopravvissero, ricordando per sempre quell’isola di umanità veneta, in un mondo dilaniato dagli orrori della Shoah.