Famiglia mafiosa a Zimella Condanne per 17 anni
Primo verdetto al processo Multari. La vittima risarcita: «Mai più episodi simili»
Minacce ed estorsioni aggravate dal metodo mafioso. Per questo quattro membri della famiglia Multari, affiliati alla ‘ndrina Grande Aracri di Cutro, nel Crotonese, sono stati condannati ieri a quasi 17 anni complessivi di carcere. Da trent’anni vivevano a Zimella, nel Veronese. «Mi sono esposto perché fatti del genere non ri ripetano più» ha detto una delle loro vittime.
A Zimella, nel Veronese, c’era una famiglia che si comportava con metodi mafiosi. E che – secondo il pm antimafia Paola Tonini – non solo risolveva i problemi del paese, a partire dalle banali liti tra vicini, ma che prendeva di mira gli imprenditori in difficoltà per taglieggiarli e si era opposta con minacce gravi alla messa all’asta di due immobili confiscati a loro: «Avvoca’, lei non ha capito un c... della vita, perché te... stai uscendo con le tue gambe, non te le ho squartate a due: che c... vuoi di più dalla vita?», avevano detto a uno dei custodi giudiziali, mentre a una coppia di indiani interessati all’acquisto era stato detto «la casa è mia, non permettetevi di entrare altrimenti vi faccio tornare al vostro Paese in una cassa di legno». Ora lo conferma anche una sentenza di tribunale, dopo che ieri il gup David Calabria ha condannato a quasi 17 anni totali i quattro membri della famiglia Multari, a processo per una serie di reati con l’aggravante mafiosa, in quanto ritenuti affiliati alla ‘ndrina Grande Aracri di Cutro, nel Crotonese, dove vivevano prima di arrivare a Zimella trent’anni fa.
Il boss era Domenico – detto «Gheddafi» per la somiglianza con l’ex leader libico, ma anche «San Domenico di Cutro» – e infatti ha dovuto incassare la pena più pesante: 9 anni. Il fratello Fortunato è stato condannato a 3 anni e 2 mesi, i figli Alberto e Antonio rispettivamente a 2 anni e 8 mesi e 2 anni. Il giudice ha confermato in buona parte la linea dell’accusa, in primis sull’aggravante mafiosa, pur riducendo le pene: per Antonio il pm aveva chiesto 8 anni, per Fortunato 7, per Alberto 4. In particolare Antonio è stato assolto da due capi d’imputazione, compresa un’estorsione a una donna, mentre per un terzo gli atti sono stati trasmessi al tribunale per i minorenni, in quanto all’epoca aveva 16 anni. I filoni di inchiesta su cui avevano lavorato i carabinieri del Ros erano stati diversi. L’imprenditore più tartassato da Domenico Multari, di Carmignano di Brenta, si era costituito parte civile con l’avvocato Alvise Fontanin: ha ottenuto un risarcimento danni di 330 mila euro, anche se nel capo d’imputazione si diceva che tra il 2006 e il 2012 gli era stato estorto quasi mezzo milione di euro, al punto che aveva dovuto vendere la casa e andare a vivere in una roulotte. «Soldi che non so se vedremo mai - dice l’avvocato Fontanin - Il mio cliente però ha avuto il coraggio di dare un contributo alle indagini e di esporsi fino alla fine per evitare che si ripetano episodi simili nel nostro territorio». Era l’unica delle venti vittime individuate ad essere parte civile. «Siamo soddisfatti per Antonio, su Domenico confidiamo in un’ulteriore riduzione in appello - commenta l’avvocato Beniamino Migliucci - noi riteniamo che non ci fosse l’aggravante e ne discuteremo». Il terzo fratello, Carmine Multari, e il moldavo Dumitru Tibulac sono stati invece rinviati a giudizio e saranno processati a Vicenza dal 16 marzo.
Ieri in aula bunker sono invece proseguite le discussioni delle difese del processo ai Casalesi di Eraclea, che si esaurirà nelle prossime due udienze del 30 e 31 gennaio. Tra gli altri, l’avvocato Alessio Bacchin ha chiesto il rito abbreviato per Christian Sgnaolin, ritenuto l’unico veneto nella «cupola» guidata dal boss Luciano Donadio, poi divenuto il principale collaboratore della procura con sette interrogatori in cui ha confessato e accusato il resto del clan. «Paga errori passati ha detto il legale - ma da tempo aveva preso un’altra strada».