L’acqua granda e il futuro del porto Venezia tra turismo e mercati mondiali
Una linea peraltro servita nei limiti dei fondali portuali intra- lagunari dalle navi portacontainer più piccole e quindi meno convenienti tra quelle che oggi solcano gli oceani. Contro ogni apparente logica. Il miracolo si spiegava con l’efficienza relativa dello scalo veneziano e, soprattutto, con la ricchezza e la proiezione globale delle economie del Nordest che consentivano di ricaricare le navi: tanti erano i container sbarcati, pieni di merci in importazione, altrettanti quelli imbarcati, pieni di merci in esportazione. L’economia del Nordest aveva scoperto con la linea diretta la convenienza ad usare la portualità veneziana anziché quella tirrenica o del mar del Nord. Gli operatori marittimo-portuali più lungimiranti toccavano, pur con qualche difficoltà, Venezia nell’attesa che i progetti di soluzione radicale della sua inaccessibilità nautica consentissero loro di sfruttarne l’eccezionale posizione geografica rispetto a mercati europei e l’ineguagliabile disponibilità di spazi retro portuali. A questo si erano impegnati Stato, Regione e Comuni nei Comitatoni e in Parlamento dal 2003 al 2016: accesso al porto, permanente ed adeguato alle dimensioni delle navi di domani, garantito dalla conca di navigazione ritoccata a Malamocco e dalla piattaforma d’altura ricca di fondali a 22 metri (la profondità del canale di Suez che oggi detta lo standard della dimensione delle navi!). Un progetto di porto offshore-onshore, il
VOOPS, concettualmente analogo a quello sviluppato con il Maasvlakte a Rotterdam, giunto al definitivo, ma miopemente accantonato due anni fa per «arbitrio del principe» nazionale, al quale quelli regionali e locali non seppero opporsi. Un progetto che oltre allo scalo di Marghera metteva in valore anche quelli di Chioggia, Porto Levante, Mantova collegato via idrovia, e Ravenna sulla costa nord-adriatica ovest, da sfruttare in «collusione virtuosa» con gli scali della costa nord-adriatica est di Trieste, Capodistria e Fiume. Insomma una portualità alto-adriatica concorrente credibile della portualità del mar del Nord e più utile di quella all’Europa per il contributo alla riduzione delle emissioni inquinanti da eliminazione di percorsi oziosi (5 giorni in meno di navigazione e tanti chilometri in meno via strada o ferrovia): un progetto coerente come pochi altri oggi in Europa con gli obiettivi del green deal (patto verde) europeo. Questa è la «luna» alla quale si deve e si può ancora guardare, perché il progetto, ben custodito nei cassetti dell’Autorità, avrebbe solo bisogno di ritocchi, magari deducibili dall’ipotesi più recente dell’offshore davanti a Chioggia, il VGate. Una luna che non può più essere nascosta dal «dito» del pur necessario escavo del canale Malamocco-Marghera oggi improvvidamente incappato nei ritardi di approvazione del «protocollo fanghi». Un «protocollo» provvisorio dal 1983 -sì 1983! -e non ancora aggiornato perché vittima di una lotta di potere sulla laguna tra amministrazioni statali e tra queste e le amministrazioni regionali e locali in nome di una autonomia (una volta si diceva federalismo) che pare non andare più di moda. No, se l’Italia vuole restare un operatore portuale globale, se il Nordest vuole connettersi in modo competitivo al mondo e se Venezia vuole allentare la dipendenza dal turismo il dito non basta. Bisogna aprire la finestra che ci fa vedere la luna.
PS. E le grandi navi da crociera da allontanare da San Marco? Un tema di distrazione di massa, «urgente» da otto anni. Oggi da affrontare almeno contestualmente ai veri problemi portuali sopra richiamati.