C’è chi ha la valigia in mano «Torno, Pechino è più sicura»
Trattati da untori ma a loro volta preoccupati di essere contagiati dai veneti «A casa le misure sono più severe»
Abbassa la serranda e se ne torna in Cina. «Almeno fino a quando qui a Venezia di coronavirus non se ne sentirà più parlare».
Ha già fatto le valigie l’imprenditore orientale («Il nome non lo scriva, che di problemi ne ho già abbastanza») di via Piave a Mestre, la strada multietnica del centro mestrino che conduce alla stazione. «Io qui ho paura, anche del mio fattorino che fa le consegne. Gli italiani prendono troppo sottogamba l’epidemia. Siete tutti senza mascherine e se me la metto io per precauzione e per rispetto nei vostri confronti, rischio anche di essere menato».
Ma non chiudete tutti perché i locali vuoti sono in perdita? «La verità è un’altra. Da me i turisti orientali vengono, ad esempio. Potrei anche tenere aperto. Ma non è certo la causa principale. Il motivo vero è la paura: qui rischiamo una seconda Whan». In Cina, assicura, corre meno rischi che a Mestre. «I contagi stanno diminuendo e fuori da quella provincia ormai rasentano lo zero».
A qualche chilometro di distanza, a Marghera, Kai Jiang a riesce a tenere aperto il suo bar solo alla mattina, ma non sa per quanto ancora resisterà. E un pensierino a tornare in patria, l’ha fatto anche lui: «Abbiamo paura del virus - confida il ventottenne - e la Cina ha usato un metodo rigidissimo per l’isolamento della popolazione. Qui invece si consiglia la mascherina solo a chi è ammalato e noi, che veniamo da una cultura in cui la si mette anche per evitare un banale raffreddore, non ne capiamo il motivo. Infatti l’Italia è passata da zero a centinaia di casi in appena una settimana». Jiang dice di aver fiducia nella sanità italiana «ma dopo aver già visto cosa è successo in Cina ho paura a stare qui». Se gli si fa notare che, in fondo, nessuno gli impedisce di indossare delle protezioni, risponde che «una mia connazionale ci ha provato a girare con la mascherina e ha sfiorato l’insulto. Così le persone si convincono che abbiamo il coronavirus. Già adesso qualcuno entra al bar, ordina il caffè e, appena mi vede in faccia, sparisce».
Alessandro Yeh, un ristoratore italo cinese che gestisce un «all you can eat» alle porte di Mestre, scuote la testa: «Non capisco perché la si paragoni d’un tratto a una banale influenza. E a dirlo sono gli stessi che, quando il problema era solo cinese, parlavano di pestilenza».
Gli orientali in Veneto temono che il nostro Paese stia prendendo alla leggera il coronavirus e molti stanno tornando in Cina. «Lì sorvegliano le zone a rischio con i droni e se ti beccano senza mascherina ti danno la multa. Se reagisci, la prigione. Io a Mestre sto attento anche a tossire per strada perché sennò mi guardano male. Figurarsi se posso pensare di mettermela», assicura Yeh. Nel Veneziano, le chiusure dei locali procedono a catena. «Mi sono detto: vediamo il primo che chiude e poi lo faccio anche io - racconta un altro giovane ristoratore di una via periferica -: in due giorni il 70 per cento di noi ha chiuso e tanti si sono comprati pure il biglietto per la “vacanza “in Cina». Anche lui ha paura del contagio. «Gli italiani non si rendono conto di quanto sia pericoloso questo virus. Prima disertate i nostri ristoranti e adesso che i contagiati sono i vostri connazionali, parlate di una piccola influenza».
Il mediatore culturale Marcello Feraco la mette in questi termini: «Dobbiamo renderci conto che, attraverso i loro familiari in patria, i cinesi hanno già vissuto la psicosi che noi stiamo affrontando solo ora. Un incubo che non possono sopportare di rivivere una seconda volta».
Il motivo per cui molti ristoratori cinesi chiudono? La paura: qui in Italia si rischia un’altra Wuhan
I dati
Fuori dalla provincia di Wuhan da ieri nessun nuovo caso di positività al coronavirus