Scambiato per il fratello trascorse 516 giorni in cella «Lo Stato deve risarcirmi»
In carcere nel ‘94, era innocente. Poi diventò un boss della droga
Il 13 aprile del 1994, il veneziano Giuliano De Checchi venne arrestato con l’accusa di aver rifornito i tossicodipendenti che battevano la Riviera del Brenta a caccia di una dose. Aveva 34 anni e fino ad allora non era mai finito dietro alle sbarre.
In cella ci rimase un anno e cinque mesi: gli inquirenti erano davvero convinti di avere tolto dalla strada un pericoloso criminale. E invece non era così e in cella De Checchi c’era finito ingiustamente.
Infatti nel 2015 - ventuno anni dopo essersi ritrovato con le manette ai polsi - per quella vicenda il tribunale di Venezia pronunciò un verdetto di assoluzione: a quanto pare, gli investigatori l’avevano confuso con suo fratello Marziano, un ex della mafia del Brenta che qualche anno dopo sarebbe finito all’ergastolo per aver torturato e ucciso un membro della sua banda, Flavio Giantin, che non voleva più sottostare alle regole.
Una volta prosciolto da tutte le accuse, Giuliano De Checchi chiese alla Corte d’Appello di Venezia di riconoscergli un ristoro per l’ingiusta durata del processo e, soprattutto, il risarcimento per quell’anno e mezzo trascorso in carcere da innocente. Se la prima richiesta gli valse un indennizzo di circa novemila euro, quest’ultima pretesa fu invece respinta: secondo l’Avvocatura dello Stato, con il suo comportamento l’uomo - che oggi ha sessant’anni - avrebbe «con-causato la privazione della libertà». Insomma, anche se non era lui a spacciare la droga, le sue frequentazioni e il suo comportamento in qualche modo giustificarono l’arresto. Più banalmente, sostennero i giudici, c’era un errore procedurale: agli avvocati mancava una corretta delega ad agire per conto del veneziano. E questo rendeva inaccettabile la richiesta dell’ex detenuto.
Ora una sentenza della Cassazione - pubblicata due giorni fa - annulla tutto e ordina alla Corte d’Appello di Venezia di rivedere la propria decisione alla luce del fatto che, in realtà, non c’era alcun difetto nel conferimento dell’incarico ai suoi legali.
A ventisei anni di distanza da quello scambio di persona che gli costò 516 giorni di carcere, per De Checchi - difeso dagli avvocati Evita Della Riccia e Luigistelio Becheri - la Suprema Corte (pur non entrando nel merito) potrebbe portare a un risarcimento che, da una prima stima, si aggirerebbe intorno ai ventimila euro.
Quel che rende ancora più incredibile la storia, è che nel frattempo quest’uomo è diventato davvero un trafficante di droga. Nel 2013, infatti, la squadra mobile di Padova scoprì che si era messo in società con alcuni ex della Mala del Brenta per organizzare un traffico di cocaina che arrivava direttamente dalla Colombia.
«Se poi ha effettivamente commesso dei reati - sostiene però l’avvocato Della Riccia fu proprio a causa di quel primo, ingiusto, arresto. Un anno e mezzo di carcere gli hanno cambiato la vita per sempre, portandolo a fare scelte sbagliate».
Nell’istanza presentata per ottenere il risarcimento, si sostiene infatti che quelle manette scattate negli anni novanta, per lui - che all’epoca era incensurato - «comportarono non pochi problemi anche dal punto di vista familiare e lavorativo ed è forse stata, cosa ancor più grave, la fonte del suo destino deviante». Quella «macchia» nel suo passato e gli oltre vent’anni trascorsi prima che un giudice lo riconoscesse innocente, gli provocarono «la perdita del lavoro e l’impossibilità di trovarne altri» ma anche «la perdita della propria famiglia composta dalla moglie e da figli ormai cresciuti».
Insomma, secondo De Checchi fu sufficiente essere scambiato per suo fratello per innescare una catena di eventi che lo trasformarono in un criminale incallito.
«Oggi sta cercando di ricostruirsi una vita - assicura l’avvocato Della Riccia - e a chi sostiene che un condannato per traffico di droga non meriti alcun risarcimento da parte dello Stato, rispondo che è la Costituzione che prevede il diritto di ciascuno a un giusto processo. E ventuno anni per sentir pronunciare un verdetto è un tempo irragionevole e inaccettabile. Specie per un innocente».