Corriere di Verona

C’ERO SOLO IO

- Di Marco Imarisio

Doveva succedere, prima o poi. Martedì scorso la sala delle colazioni aveva chiuso un’ora in anticipo rispetto al solito. Le cameriere, gentilissi­me, avevano fatto un lungo giro di parole per dire che c’era poca gente. Giovedì era sparita anche la coppia di origine asiatica che ogni pomeriggio prendeva il tè al bar del pianterren­o. Venerdì nella hall regnava un silenzio assoluto. Gli impiegati alla reception, sorridenti, faticavano a nascondere una espression­e di smarriment­o. Nella hall si aggiravano solo due persone. Il sottoscrit­to, e un signore con gli occhiali che a voce alta raccontava, credo per scherzo, di essere in quarantena. Ieri alle dieci del mattino l’ho visto saldare il conto, il trolley dietro di lui. In quel momento ho capito che stava succedendo davvero. Sono l’unico ospite del più grande hotel di Padova. Centottant­a camere, dieci piani di altezza, dieci sale congressi, non so quanti dipendenti. Una sola colazione, una sola stanza da rifare, un solo cliente. E questa atmosfera ovattata, questo silenzio così innaturale. Non possono parlare, i poveri impiegati, per policy aziendale. Colgo qualche brandello di conversazi­one, perché nel vuoto pneumatico ogni rumore, ogni sussurro, si amplifica.

«Neppure l’undici settembre si era vista una cosa del genere», dice una cameriera a una sua collega, che annuisce. Era annunciato un gruppo di dieci persone, ma invece sono altre dieci disdette. Qualcuno parla di ferie forzate, tutti hanno timore per il loro futuro.

Solo ora mi accorgo che il luogo dove da ormai una settimana dormo e scrivo dopo essere andato in giro per Padova, Venezia, ai bordi della zona rossa, racconta più di ogni altro il danno incalcolab­ile che sta producendo questa crisi. Una sola stanza, su quasi duecento.

Potrei raccontare questa atmosfera straniante, il continuo paragone che mi viene da fare con l’Overlook hotel di Shining. Ma per il momento non ho ancora scritto che il mattino ha l’oro in bocca. Comunque, non è il caso di fare esercizi letterari. Questa è una faccenda reale, maledettam­ente seria.

Venerdì sera sono uscito alle 18. Ho attraversa­to a piedi il quartiere universita­rio deserto. Quando sono arrivato in piazza Garibaldi, all’improvviso è cambiato tutto. Ragazzi ovunque, gente che entrava e usciva dai locali, voci, finalmente tante voci, risate, la movida insomma, chiamatela come volete. Ho fatto la coda in un bar intorno a piazza delle Erbe per ottenere il mio spritz. Ho telefonato in un ristorante di pesce e mi hanno risposto che era pieno, al massimo potevo ottenere un tavolo al secondo giro della serata, verso le 22. E ne sono stato quasi contento.

Poi sono tornato indietro. In lontananza, la torre non si vedeva. Escluso il pianterren­o, c’erano solo due luci attese. Quella della mia stanza e un’altra all’ultimo piano, dove c’è la cucina.

Nel parcheggio intorno al palazzo, dove in tanti anni di fedele e abitudinar­ia frequentaz­ione mai sono riuscito a trovare posto, c’era solo la mia auto. La città è viva e vuole vivere. Solo che non ci viene più nessuno. Il mio primato è durato poco, per fortuna. Ieri pomeriggio è entrato un cliente nella hall, dove stavo lavorando da qualche ora, purtroppo indisturba­to. Dall’accento ho capito che veniva dall’Emilia-Romagna. Si guardava intorno, perplesso. «Poca gente eh?» ha detto alla ragazza della reception. Lei annuiva, impossibil­itata a negare la realtà. Mentre stava facendo il check-in, il nuovo arrivato ha ricevuto una chiamata. La suoneria ha riprodotto le note iniziali di «Una vita spericolat­a». Magari gli chiedo se vuole andare a bersi un whisky, o meglio, uno Spritz. Non al Roxy Bar, ma nel centro di Padova.

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