NEL ‘500 LA CURA ERA LA FORCA
La lotta millenaria dell’uomo nei confronti delle malattie è sempre stata impari.
Dopo aver notato con soddisfazione che, almeno finora, nell’attuale epidemia/pandemia da Coronavirus non si è sentito il termine «peste», come storico della medicina mi permetto di trarre qualche considerazione dal passato. La lotta millenaria dell’uomo nei confronti delle malattie è sempre stata impari, tanto più in occasione di epidemie. Per questo, soprattutto in ambito medico, si può sorridere di numerose terapie del passato, che oggi appaiono evidentemente incongrue e oggettivamente errate, ma mai ridere, in quanto si deve sempre tener conto del grado delle conoscenze dell’epoca in questione. Inoltre, se non ci si lascia distrarre da definizioni talvolta molto simili a formule magiche, in alcune antiche pratiche igienico-terapeutiche si possono individuare indicazioni tutt’oggi valide e consigliabili. Pensiamo alla criptica definizione di «sei cose non naturali» dietro la quale si nascondono tutti quegli aspetti indispensabili alla vita – quali ambiente, alimentazione, attività fisica, ritmi giornalieri, funzioni corporee ed emozioni – che possono, e devono, essere controllati con l’educazione e migliorati con la volontà. È evidente che tutti gli elementi di questa antica regola corrispondono esattamente a quanto proprio oggi consideriamo necessario per vivere sani e a lungo. L’antica ars vivendi, che possiamo interpretare come «scienza» del ben vivere, si occupava ovviamente anche delle emergenze e, in primis, delle epidemie. La sintesi più efficace dei provvedimenti da mettere in pratica in caso del rapido diffondersi di una malattia contagiosa la fornisce Giovanni Filippo Ingrassia (1512-1580), medico palermitano che secondo la migliore tradizione rinascimentale frequentò le Università di Padova, Ferrara e Bologna prima di tornare a Palermo. Nella sua Informatione del pestifero, et contagioso morbo (Palermo 1576), un vero proprio instant book edito in occasione della terribile pandemia di peste che infierì tra il 1575 e il 1576, causando in pochi mesi milioni di vittime in un’Europa molto meno popolata di oggi, già dal frontespizio dell’opera balza agli occhi il trinomio «Oro», «Fuoco» e «Forca» associato, per maggiore chiarezza, a tre vignette esplicative. In periodo di epidemia, secondo Ingrassia, era innanzitutto necessario disporre di denaro contante per finanziare i provvedimenti più urgenti e per sopperire con tempestività alle necessità primarie dei ceti più deboli, che andavano aiutati non solo con la cristiana carità ma anche con apposite raccolte di fondi e con tasse finalizzate. D’altra parte la migliore tutela alla diffusione del male era costosa in quanto consisteva nella distruzione col fuoco purificatore di tutte le «robbe» infette e le masserizie, già all’epoca considerate possibili veicoli di contagio. Infine pene severe erano comminate a coloro che contravvenivano alle disposizioni delle autorità proposte alla salvaguardia della pubblica salute. Con poco sforzo, e con qualche utilità, possiamo trasferire al presente i drastici consigli redatti in un periodo di furori inquisitoriali. Oggi, come allora, è innanzitutto evidente che un’epidemia comporta inevitabilmente spese vive immediate e mancati guadagni futuri: situazione che rende necessario «pompare denaro liquido» – oro – pubblico e privato; l’eradicazione della causa del
contagio necessita dell’isolamento dei singoli e delle comunità – siano esse città o stati – e la contemporanea applicazione di provvedimenti e la somministrazione delle cure – fuoco – più efficaci a disposizione; per quanto severe tutte le disposizioni devono essere rispettate e fatte rispettare anche con il ricorso di pene esemplari – forca – senza eccezioni. Se possiamo facilmente interpretare e adattare al presente antiche regole, più difficile è trasmettere lo spirito che animava i nostri antenati nelle emergenze. Abituati, al contrario di oggi, a ricorrenti catastrofi spesso concatenate tra loro, quali guerre, carestie e pestilenze, sapevano che di fronte al cedimento della resistenza nei confronti di un evento esterno negativo la soluzione migliore era la resilienza. La fiducia nel futuro è un’arma potente, tanto più che a un periodo di crisi solitamente segue una rinascita proporzionalmente rapida e vivificatrice. La pace settantennale che sta vivendo il mondo occidentale non deve far dimenticare le riprese “esplosive” che hanno caratterizzato i dopoguerra del primo e del secondo conflitto mondiale. * Docente di Storia della Medicina Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Padova