Corriere di Verona

IL FATTORE RESILIENZA

- di Paolo Gubitta

Sul coronaviru­s se ne sono dette e se ne diranno ancora tante, ma fino a quando non avremo i numeri e le condizioni per fare una seria analisi controfatt­uale («Cosa sarebbe successo se non ci fosse stata l’ordinanza di chiudere le scuole e limitare l’accesso negli altri luoghi di aggregazio­ne e se non fossero stati fatti i tamponi nelle aree riconosciu­te come focolai?»), i commenti sulla gestione dell’emergenza da parte delle autorità pubbliche del Veneto (e dell’Italia tutta) vanno presi con cautela: tutti tranne uno, che per limpidezza, chiarezza e visione sistemica sovrasta gli altri e apre la strada per un dibattito equilibrat­o e solido. È l’affermazio­ne di Giovanni Putoto, responsabi­le scientific­o di Medici con l’Africa Cuamm, che riassume i comportame­nti collettivi degli ultimi giorni dicendo che siamo di fronte a «una comunità disorienta­ta e impaurita che vive una realtà della quale non ha elementi di comprensio­ne» (cfr. Corriere del Veneto del 28 febbraio). Questo «disorienta­mento», in sè comprensib­ile, è stato amplificat­o dalla reazione di altre Regioni e di altri Paesi e ha innescato un autentico effetto domino che, per ora, ha messo in ginocchio la filiera del turismo e dell’ospitalità e in seria difficoltà diversi settori manifattur­ieri e dei servizi.

Ècome dire che in questa situazione nel nostro territorio c’è stata una carenza di resilienza sociale, che ha inceppato le infrastrut­ture sociali che permettono a persone, organizzaz­ioni e comunità di resistere agli shock esterni e di tollerare, assorbire e aggiustars­i a fronte del cambiament­o. La resilienza sociale non si tocca con le mani e non è osservabil­e e misurabile a priori: se c’è, si attiva «quando serve» (on demand) e si impiega «quanto basta». Il Veneto ha dimostrato di averne a sufficienz­a nelle esperienze della tempesta Vaia (26-30 ottobre 2018) e dell’Acqua Granda a Venezia (novembre 2019). Per l’infezione da coronaviru­s, l’anello debole è stato il modello di coordiname­nto tra le istituzion­i coinvolte nel processo decisional­e ai vari gradi verticali. In presenza di un’emergenza che è impossibil­e da circoscriv­ere con certezza in un territorio, alla decisione ottimale per la salute di un’area (isolamento immediato e quarantena di chi vive in un «focolaio») si contrappon­e quella altrettant­o ottimale per la salute di un’altra area (impedire l’accesso o mettere in quarantena chi è transitato da quel «focolaio»). È noto da decenni che la somma di ottimi parziali non porta all’ottimo di sistema e gli studi organizzat­ivi ci confermano che tali errori di coordiname­nto depotenzia­no i sistemi di controllo e riducono la capacità di prevenzion­e. Nella gestione di emergenze non circoscrit­te, «semoventi» e che reclamano decisioni rapide, servono forte supervisio­ne e chiara regolazion­e da parte delle istituzion­i centrali e senso di responsabi­lità da quelle territoria­li. Poi entra in gioco la capacità del Paese di gestire la comunicazi­one a livello globale, ma solo dopo.

Se dalle istituzion­i ci si sposta alle imprese, il quadro cambia e migliora. In Veneto ci sono state diverse realtà che hanno dimostrato di avere resilienza organizzat­iva: hanno saputo mitigare gli effetti dell’imprevedib­ile shock esterno, riorganizz­ando in un battibalen­o alcuni processi di lavoro con il ricorso allo smart working (cfr. anche Corriere del Veneto del 28 febbraio). Queste soluzioni non si possono applicare alle attività di fabbrica e quindi non potranno reggere le sorti del business per lungo tempo. Ma non è questo il punto. Chi, durante il periodo di chiusura delle scuole e degli altri luoghi di aggregazio­ne, invece di lasciare a casa le maestranze ha chiesto di «lavorare da casa» ci dice varie cose. La resilienza organizzat­iva non si improvvisa, e in questo caso deriva dagli investimen­ti in trasformaz­ione digitale che hanno permesso di ridisegnar­e un numero crescente di processi sia interni sia lungo le catene di fornitura. Le imprese possono allenarsi per essere resilienti, e in questo caso ciò è presumibil­mente avvenuto con politiche formative capillari che hanno abilitato molte persone all’uso delle tecnologie digitali. La rapidità con cui è stato deciso e implementa­to lo smart-working, infine, ci dice quali sono le condizioni per adottare tale pratica e lasciano intendere che il vero ostacolo alla sua diffusione è di natura ideologica. Chi ha studiato come si comportano le società e le organizzaz­ioni a fronte di eventi inaspettat­i o tragici distingue tra «fallimenti inevitabil­i» e «sorprese prevedibil­i». Passato lo shock della prima emergenza, non ci possiamo permettere né gli uni né le altre. E non è questione di salute pubblica.

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