CINQUE STORIE ANTI VIRUS DAL NORDEST
Vita notturna di M. e S. E del loro figlio che tornò con il pane
Cinque scrittori raccontano la nostra nuova vita ai tempi del Covid-19 con uno sguardo inedito.
Come cambia la vita ai tempi del coronavirus? E come cambia, se cambia, il nostro modo di pensare e di ri-considerare il mondo? Pur spiegando e approfondendo, i giornali e i media in genere sono affollati dalla cronaca, molto spesso dirompente e in mutazione veloce, di una situazione che debutta nelle nostre esistenze, senza precedenti. Abbiamo chiesto un contributo a cinque scrittori e intellettuali del Nordest: il veneziano Giovanni Montanaro, i padovani Antonia Arslan, Matteo Strukul, Romolo Bugaro, il trentino Franco Rella. Gli autori - ognuno con la propria sensibilità raccontano questa nostra nuova vita con uno sguardo inedito.
M.tiene il bambino vicino a sé. Somiglia molto a S., più passa il tempo più lui le somiglia; anche se è un maschio ha gli stessi occhi, lo stesso colore dei capelli, l’identico taglio degli zigomi. M. arriva fino alla soglia del supermercato pubblico, prende la tessera per il pane, la lascia al bambino. È più prudente così, dicono. Ai bambini non succede niente con il virus, il supermercato ne è pieno. Quanti anni sono passati, da quando tutto è cominciato? Non se lo ricorda più. Il bambino avrà ormai 5 anni. Era una vita più bella, una volta. Niente controlli, niente mascherine, niente respiratori artificiali di emergenza in casa. Era tutto diverso. S. non voleva figli, prima che arrivasse il virus. È stato solo dopo, che ha deciso. L’hanno fatto una notte, così, perché capitasse, per sconfiggere la paura, perché vincesse la vita. È arrivato subito. E così, quando guarda il bambino, pensa che magari non ci sarebbe stato. È stato il virus, a cambiare tutto. Il bambino ritorna con il pane. Sorride; per lui è un gioco, uscire di casa le due volte a settimana in cui è consentito. «Qui, un tempo, c’era un bar» gli dice M. «E che cos’è un bar?». «Un posto dove si entrava per bere qualcosa. Tutti insieme». «Che strano». «Era un mondo diverso. Pensa che a salutarsi ci si stringeva la mano». «Che schifo! La videomaestra ci ha detto che non bisogna mai sfiorarsi con le altre persone». «Ma tua mamma però la abbracci». M. sorride. Per fortuna che c’è S. Da solo non ce l’avrebbe mai fatta. «Quando se ne andrà, il virus?» si domanda M. Doveva durare un paio di settimane, poi qualche mese, scomparire con la prima estate, ma invece è rimasto lì, per anni. M. sente qualcosa che gli gratta la gola. È qualche giorno che ha dei piccoli dolori, quando inghiottisce, ma «niente di che» cerca di convincersi. Adesso, però, gli viene da tossire. Lo fa, una prima volta, soffocando la tosse. Ma poi non riesce più di tanto, e gli viene fuori un colpo forte. «Si allontani!» grida un soldato, che spinge via il bambino da M. M. continua a tossire. Non è solo un soldato, adesso ne vedi dieci, poi cento, puntano tutti quanti un fucile contro di lui, tossisce di nuovo, sente un calore, sulla faccia, qualcosa che si concentra sulla guancia. Strabuzza gli occhi. Non capisce cosa gli sta succedendo. Sente ancora calore. No, non può sbagliarsi. È un bacio. «Vuoi un bicchier d’acqua?». M. apre gli occhi. S. è lì vicina a lui. «Alzati che farai tardi al lavoro». «Ho fatto un incubo». «Ti lasciavo?». S. si alza dal letto, M. la trova bellissima; gambe sottili, magrissime, capelli corti. «Mi passi il telefono?» le chiede, quando ancora è sprofondato nel cuscino. «Cosa vuoi vedere?». «Se ci sono novità sul virus». «No, non ti do il cellulare. Hai fatto una malattia del corona anche senza averlo». S. guarda fuori dalla finestra. «È così bello, fuori, oggi. Pensa che bello sarà la prossima volta che andremo a vedere un concerto». «E se non capitasse mai più?». «Ma cosa dici? Sarà dura, ma andrà tutto bene».
Che schifo! La videomaestra ci ha detto che non bisogna mai sfiorarsi con le altre persone
apparentemente incrollabili. Ma noi tutti eravamo certi di vivere in un sistema definitivamente stabilizzato. La verità è che nessuna condizione, né personale né collettiva, è mai definitivamente stabilizzata. E incontrare di nuovo la forza incontrollabile della mutazione è stato un trauma particolarmente violento proprio nel nostro territorio, che in fondo si sentiva immune da tutto.
In questi giorni di scuole chiuse, teatri sbarrati e alberghi deserti, con molti comparti produttivi fermi e molti operatori economici in ginocchio, la politica e persino la finanza si sono (giustamente) inchinate alla scienza. Anche se le restrizioni sono un disastro per l’economia, è necessario accettarle. Troppo grande il pericolo di tirare dritto come niente fosse, con conseguenze potenzialmente catastrofiche. Questo stop, in una terra concreta e produttiva come il Veneto, è stato particolarmente traumatico. All’improvviso gli scienziati, di solito negletti, sono diventati più importanti di manager e amministratori delegati. Altro effetto del virus: un cambio di prospettiva radicale nella scala dei valori anche sociali, un brusco riavvicinamento ai fondamentali che avevamo dimenticato. Ma il
Veneto è anche una terra di solidarietà, aiuto e volontariato, altro campo in cui l’infezione sta rapidamente cambiando le cose. Prendere una serie di precauzioni, per esempio lavarsi spesso le mani, è importante per preservare la propria salute, certo. Ma anche per proteggere quella degli altri, soprattutto dei più deboli. I cittadini di Vo’, reclusi da settimane nel loro piccolo comune, stanno dando a tutti una grande lezione di senso di responsabilità. Può sembrare paradossale che l’aiuto agli altri passi attraverso la negazione dei rapporti interpersonali: vietato muoversi dal proprio paese, vietato abbracciarsi, vietato addirittura stringersi la mano. Eppure questo virus che sembra portare con sé soltanto isolamento e diffidenza reciproca, in realtà può far crescere un nuovo civismo, un’identità collettiva più solida, della quale il Veneto, reduce da una serie di traumi, ha grande bisogno.
Senza mai dimenticare i morti e gli ammalati, gli operatori economici in ginocchio e i lavoratori a rischio disoccupazione, proviamo a pensare che questa malattia arrivata da chissà dove sia anche un’occasione di consapevolezza e di crescita, per tutti noi.
La verità è che nessuna condizione, personale o collettiva, è mai definitivamente stabilizzata