Corriere di Verona

Nell’ospedale Covid «Da quando sono qui non ho più ricordi della vita precedente»

Rita Marchi pneumologa a Schiavonia : «Con i colleghi siamo in reparto dall’alba alla sera tardi, ma per noi i pazienti vengono prima di tutto»

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enorme sacrificio, ma nessuno si lamenta».

Suo figlio ha 12 anni, come vive questa sua lontananza da casa?

«Mauro sta con mia madre, quando è arrivato il momento di trasferirm­i qui ne ho parlato con lui e mi ha detto “mamma, tu adesso devi andare dove ci sono i malati”, per me è stata come una benedizion­e, mi sono sentita più tranquilla, ci sentiamo su Skype la sera, non riesco a fare di più ma credo che il mio posto ora sia qui».

Com’è la situazione adesso a Schiavonia?

«Sembra di nuotare controcorr­ente in acque gelide,

In reparto Rita Marchi (a destra), primaria di pneumologi­a a Cittadella, adesso al Covid Hospital di Schiavonia con una collaborat­rice dimettiamo 5 pazienti e ne arrivano 8, siamo tutti in attesa del picco e della discesa, noi medici come voi fuori immagino…».

Che cosa non dimentiche­rà di questa emergenza?

«Mi porto dentro gli aspetti più inusuali, quelli che non ti aspetti in situazioni come questa: mi ha fatto sorridere una paziente piuttosto anziana, ammalata, preoccupat­a più della ricrescita dei suoi bei capelli rossi che del virus. L’altro giorno poi c’era una coppia, marito e moglie in due stanze diverse, tutti e due positivi, la moglie voleva vedere il marito ma lui ha detto “no no, che mi stia lontana

Rita Marchi, 55 anni, originaria della Sicilia, si è laureata in Medicina e chirurgia all’Università di Padova il 30 marzo del 1990, ha preso la specializz­azione in Malattie dell’apparato respirator­io nel 1994 e una seconda specializz­azione in Medicina fisica della riabilitaz­ione nel 2008. È stata dirigente medico all’Azienda ospedalier­a di Padova e da novembre dello scorso anno è diventata primario Uoc Pneumologi­a a Cittadella. Da febbraio è in prima linea contro l’emergenza sanitaria legata al coronaviru­s Covid-19 e dal 13 marzo è a Schiavonia che sennò mi ammalo anche io”, non aveva ben chiaro che era già contagiato».

Come reagiscono psicologic­amente gli ammalati?

«L’approccio alla malattia è diverso, gli anziani sono depressi perché non comunicano con nessuno, i pazienti più giovani, e qui ne abbiamo molti, sono spaventati, noi sanitari siamo spesso messaggeri per le famiglie, siamo travolti anche noi dalla gioia di chi viene dimesso, e poi preoccupat­i per pazienti nuovi, è una tempesta di emozioni che non si ferma mai».

E i medici? Qual è l’umore dei colleghi?

«E’ chiaro che la paura c’è sempre ma quando siamo in reparto la priorità sono i pazienti, non ho mai visto nessuno tirarsi indietro».

Il 21 febbraio il primo caso a Vo’, lei aveva intuito che si sarebbe arrivati a questo punto dopo poco più di un mese?

«Nessuno era preparato, noi pneumologi, insieme ad anestesist­i e rianimator­i ci siamo ritrovati ad affrontare un’ondata per la quale non eravamo pronti, e non ci hanno aiutato i comportame­nti irresponsa­bili di tante persone».

Le capita mai di pensare che vorrebbe essere altrove? Fare un altro lavoro?

«Mai, mi sento solo enormement­e fortunata per essere a capo di un team di medici e infermieri preparati e competenti, anche i dirigenti stanno dando il massimo, si preoccupan­o tutti per noi, ci chiedono se mangiamo, se dormiamo, se abbiamo bisogno di qualcosa».

Che effetto le fanno le notizie che arrivano da fuori?

«Ho visto le foto della gente in fila davanti ai supermerca­ti sabato scorso e mi sono spaventata perché ho la sensazione che non ci sia consapevol­ezza dei rischi che si corrono».

Qual è la prima cosa à che farà quando quest’emergenza sarà finita?

«Voglio organizzar­e una festa con tutti gli amici e colleghi alla club house del Petrarca (il figlio gioca a rugby e Rita ha fatto spesso da medico in campo durante le partite, ndr), e poi voglio andare in vacanza a Lipari con Mauro».

Mio figlio mi ha detto: mamma tu adesso devi andare dove ci sono i malati

Ho visto le foto della gente ai supermerca ti , non c’è consapevol­ezza dei rischi

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