Corriere di Verona

Il boss della Black Axe assolto e scarcerato: «Non era mafia»

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«Le emergenze processual­i non sono state in alcun modo idonee a provare con sufficient­e certezza che a Verona sia stato celebrato un vero e proprio rito di iniziazion­e, un battesimo per l’affiliazio­ne di nuovi adepti all’articolazi­one italiana della Black Axe». Fino al 9 novembre scorso è rimasto in carcere a Tolmezzo dal 2016 perché considerat­o «il capo della Black Axe in Italia». Viveva a Zevio, dove venne bloccato e condotto in cella dall’Antimafia di Palermo, il presunto «boss» della mafia nigeriana nel nostro Paese. I tentacoli dell’«ascia nera », secondo la Dda siciliana, si dipanavano da Palermo a Verona. Detenuto da tre anni dopo quel blitz dell’Antimafia a Zevio, il 43enne Uwagboe Osahenagha­ru sei mesi fa è stato assolto da ogni accusa, in primis da quella di aver diretto le azioni criminose e impartito gli ordini alla potente e violenta organizzaz­ione Black Axe, l’«ascia nera». Rischiava una condanna pesantissi­ma: il pm aveva chiesto per lui 18 anni di reclusione. Invece Osahenagha­ru, difeso dall’avvocato Anastasia Righetti, è stato totalmente riabilitat­o dai giudici di primo grado siciliani che, adesso, hanno depositato le motivazion­i: nel passaggio chiave, i magistrati spiegano come Osahenagha­ru fosse membro del New Black Movement of Africa, «associazio­ne con connotazio­ni pacifiche» ma tutt’altra cosa rispetto a Black Axe. «Non può ritenersi provato al di là di ogni ragionevol­e dubbio che -scrivono i giudici - la mera appartenen­za alla associazio­ne NBM of Africa equivalga tout court ad appartenen­za al culto nigeriano della Black Axe e quindi, come passaggio successivo, a una associazio­ne di tipo mafioso che abbia, peraltro, replicato anche nel territorio italiano tali connotazio­ni di mafiosità». Critiche vengono mosse, inoltre, dalla Corte alle dichiarazi­oni rese dai collaborat­ori nel corso del processo: «In tale contesto - si evidenzia nella motivazion­e della sentenza - si è visto come assai consistent­i profili di criticità connotino il racconto dei collaborat­ori, criticità che, a parere della Corte, inducono a ritenere le loro sole dichiarazi­oni del tutto inidonee a realizzare una effettiva e convincent­e convergenz­a e provare, solo su tali basi, i fatti in esame».In tre anni di processo, l’avvocato Righetti di Verona ha difeso il presunto «boss di Zevio» con i colleghi Cinzia Pecoraro e Giovanni Rizzuti: le loro tesi a favore dell’imputato 43enne, con la sentenza appena motivata, hanno trovato totale accoglimen­to. Davanti alla Corte presieduta da Sergio Gulotta, sono dunque cadute le ipotesi di associazio­ne a delinquere aggravate dal metodo mafioso ed estorsione. Già certa, da parte dell’accusa, l’impugnazio­ne in appello.

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