UN NUOVO RISVEGLIO PER LA CITTÀ
Sono tornati. Con mascherine della Serenissima o garze lise incollate al mento, gruppi di ragazze come odalische o bambini che sciamano come api imbizzarrite, avambracci allenati o glutei terremotati, e qui e lì perfino qualche romantica coppia senza età.
Hanno gli sguardi intinti nello stupore, la faccia felice. Venezia, anche oggi, è bellissima. Era già animata da qualche settimana, da quando i primi gruppi di veneziani hanno cominciato a ritrovarsi al mercato, a Santa Margherita, nei campi la domenica, nelle zone ancora vissute.
Adesso, sono tornati i turisti, i forestieri. Il loro ritorno provoca al veneziano sentimenti del tutto opposti, al limite della schizofrenia; dovremmo essere felici, ci mancherebbe, ma non lo siamo del tutto. Lo siamo, però. Prima di ogni altro sentimento, per distacco, si scatena infatti una gioia enorme, infantile, dopo l’orribile vuoto di questi mesi macabri. E poi c’è l’orgoglio, che Venezia piaccia sempre così tanto, sia il primo pensiero, la prima cosa da rivedere, da rifare, quando ci ricordiamo che lo scopo della vita non è andare alla Conad (o in altro luogo dai commessi eroici).
Venezia, comunque, resterà sempre, nessuno se la dimentica. E poi si spera anche in un po’ di respiro per il turismo, che è davvero in difficoltà (perdite dell’’80/90 per cento degli incassi), anche qui dove per anni si è accumulato, non sempre con grande professionalità, non sempre con grande lungimiranza. Ma c’è tanto altro, a Venezia. E non solo quello stordimento che forse proviamo tutti, come mammiferi dopo il letargo, quel senso di pericolo ancora inoculato nelle reazioni istintive di una tragedia per niente conclusa. Per il veneziano c’è anche un altro terrore. Che tutto torni come prima. Prima del disastro dell’acqua alta, del Covid-19, infatti, la città era già una barca sbilenca, ed è per questo che affonda in modo più fragoroso di altre.
Si dice che più del 50 per cento dei veneziani in laguna abbia ormai interessi nel turismo. Troppo per non essere un ricatto. Troppo turismo, intasamenti, sporcizia, nessuna idea alternativa di città, in laguna e nella terraferma; solo una soporosa, vecchia e grassa decadenza, pur con molti barlumi interessanti di resistenza e inventiva. Eppure, questi mesi che avremmo volentieri evitato, i peggiori della vita di ciascuno, hanno avuto perlomeno un pregio. Riportare di moda un concetto che non era per niente à la page (e che, temo, potrebbe tornare vetusto a brevissimo): il buonsenso, la ragionevolezza. Esattamente ciò che manca da troppi anni a Venezia (e forse non solo a Venezia).
Ormai l’hanno capito tutti, persino chi di turismo vive (e oggi muore), che Venezia non può essere solo questo. Non solo perché il turismo è incerto e da ripensare (e lo sarà, comunque, a lungo), ma anche perché ridurre a un grande bed&breakfast il più bel gioiello del mondo ne frustra le potenzialità economiche e la cruciale collocazione geopolitica in un mondo in movimento. È il tempo di una nuova prospettiva, e si presenta un’occasione unica; un tempo doloroso, faticosissimo, in cui però bisogna pensare, fare, progettare, investire.
L’errore più grande sarebbe infatti attendere inebetiti che tutto torni come prima. Venezia, invece, ha bisogno di trovare la sua nuova natura, che la proietti finalmente nel nuovo Millennio con una nuova idea di città. Un’idea vincente. Se il Novecento l‘ha reso poco competitiva rispetto a città più funzionali e più velocemente connesse, il nuovo mondo «smart» consente a Venezia un nuovo protagonismo, che parta dai suoi punti di eccellenza; bellezza, laguna, vivibilità, sostenibilità.
Certo, bisogna fare passi concreti; interventi normativi sulla fiscalità turistica, incentivi alla residenza, call internazionali per investimenti (specie su ambiente ed ecologia), creazione di posti di lavoro qualificati. È necessario soprattutto cominciare a pensare in modo diverso, così da trovare, senza vendette e sempre attenti al bilancio, il nuovo equilibrio di Venezia.