Papà e figlia morti per un sorpasso azzardato, indagato l’investitore
Il biglietto lasciato a casa: «Andiamo a farci un giro», le foto della gita in moto sul Monte Grappa mandate via messaggio, e quel telefono che a distanza di ore suonerà a vuoto. Filippo Bonin, elettricista di 48 anni di Malo, e la sua secondogenita Gloria, di 11, lunedì pomeriggio non sono sopravvissuti allo schianto lungo la provinciale 148 «Cadorna» a Romano d’Ezzelino, di ritorno a casa. Ad investirli la moto di un 44enne di Pozzoleone che viaggiava in senso opposto, verso Cima Grappa, e che avrebbe effettuato un sorpasso azzardato.
Gianluca Negrin, questo il suo nome, sarà ascoltato di nuovo oggi dai carabinieri, indagato con l’ipotesi di omicidio stradale plurimo. Ai militari ha già raccontato di aver iniziato la manovra per superare un furgone che lo precedeva, senza accorgersi che la strada, poco prima dell’ottavo tornante, faceva un’ampia semicurva. Solo all’ultimo istante ha visto la Bmw su cui viaggiavano padre e figlia, troppo tardi per evitare l’impatto. «Non li ho proprio visti, non ho fatto in tempo», avrebbe detto. Filippo e Gloria Bonin sono stati sbalzati a terra, schiacciati dalla loro stessa moto, con la telecamerina installata sul casco della baby passeggera andata distrutta. Oggi le autopsie. «Filippo era encomiabile, laborioso, tutto casa e famiglia», lo ricorda il suocero Renato Pastore. «Padre e figlia erano molto legati, sempre assieme, lui, che aveva da poco rimesso a nuovo la moto, le aveva comprato il casco e la tuta protettiva, era un motociclista esperto e sapendo che aveva Gloria con sè non posso pensare che abbia avuto una guida sconsiderata». garantito un adeguato supporto medico.
Chissà se proprio la fretta di uscire di prigione ha influito sull’intenzione di collaborare con quelle forze dell’ordine che un tempo disprezzava. Appena tre mesi dopo essere stato arrestato, ha chiesto di essere interrogato. E subito, al magistrato tiene a precisare quanto stia patendo: «Sono alto un metro e 78. Quando sono entrato in carcere pesavo 112 chili. Dopo l’isolamento pesavo cento chili e adesso ne peso 70. Durante la detenzione ho perso 40 chili». Ma soprattutto, racconta: «Arrivato a Eraclea, mio zio Luciano Donadio mi ha messo a disposizione un appartamento dicendomi che mi avrebbe dato mille euro al mese se mi fossi intestato delle società». La testimonianza è dettagliata. Puoti parla delle fatture false emesse dalle aziende che facevano capo al boss; degli sgherri che gli giravano intorno, compreso Girolamo Arena «che si faceva grande dicendo che era nipote di Totò Riina»; e delle minacce che subivano gli imprenditori. Nel 2011 c’era stato «l’intento - da parte del boss di bruciare l’auto dell’allora sindaco di Eraclea perché gli aveva risposto male in piazza». Funzionava così, conferma «l’Albanese»: «Luciano diceva sempre che nessuno gli doveva creare degli ostacoli». Il nipote del presunto capo-clan parla anche dell’agenzia di scommesse che la famiglia aveva nel Veneziano e che «era improduttiva per scarsità di giocatori ma aveva la sola funzione di ripulire il denaro che proveniva dall’usura e da tutti i traffici illeciti di Donadio». E spiegando i meccanismi, oltre allo zio incastra anche il cugino: «Luciano era solito ripulire il contante passandolo al figlio Adriano che lo utilizzava per pagare le vincite al Punto Snai. Le schedine vincenti erano poi trattenute da loro due, che si facevano liquidare dalla Snai».
Difeso dagli avvocati Giuseppe Stellato e Raffaele Vacore, ora Puoti attende il processo a casa, nel Casertano. I difensori precisano che «sta meglio ma i suoi problemi di salute non sono del tutto risolti».