Pizzi: «Senza pubblico il teatro non può esistere»
Il grande regista compie 90 anni: «Io, Venezia e la Fenice»
Regista, scenografo, costumista: Pier Luigi Pizzi, il maestro multiforme, personalità caleidoscopica, dalle mille sfaccettature. Uomo di teatro completo, le sue regie hanno scritto la storia della lirica. Lunedì 15 giugno è il suo novantesimo compleanno e per festeggiarlo la Fenice alza il sipario - in attesa della programmazione dal vivo a luglio -, per ospitare un’intervista al maestro milanese condotta dal sovrintendente e direttore artistico Fortunato Ortombina, in diretta streaming sulla pagina Facebook del teatro (ore 11). In settimana era previsto il Rinaldo di Händel con la sua regia, che verrà proposto entro quest’anno.
Come è iniziato il suo rapporto con Venezia e la Fenice?
«Alla Fenice sono arrivato attraverso il teatro di prosa. Nel 1951, primo anno della mia attività di scenografo e costumista, creai le scenografie dell’Avaro di Goldoni, con regia di Cesco Baseggio, uno spettacolo nato con la Biennale Teatro. Poi, non c’è una regia che mi sia rimasta più impressa, ho fatto tantissime produzioni che hanno avuto importanza nella mia carriera, penso al recente Morte a Venezia di Britten».
Un’opera che ritiene «perfetta»?
«Mi sono dedicato a tutti i repertori, dal Barocco al melodramma, dal Novecento al contemporaneo. Ci sono opere che ho affrontato con maggiore interesse, come il Don Giovanni di Mozart e di Verdi, che ho amato di più, Macbeth. Tancredi di Rossini mi ha lasciato una grande traccia, ma anche Semiramide».
Gli studi d’architettura, la formazione da scenografo e costumista, come hanno influito sull’attività da regista?
«L’architettura mi ha insegnato a organizzare lo spazio, operazione fondamentale sia nel lavoro da scenografo sia da regista. Anche quando creo i costumi, ragiono da architetto: devono avere una loro necessità strutturale».
Lei è noto per dare un’impronta classica ai suoi allestimenti, cosa ne pensa di chi porta in scena elementi di forte contemporaneità?
«La contemporaneità la porto anche io: Il matrimonio segreto di Cimarosa l’ho ripensato in chiave attuale, la scorsa stagione al Regio di Torino. Poi, sono stato il primo a proporre I Vespri siciliani con abiti ottocenteschi alla Scala negli anni Settanta. Non sono contrario alle trasposizioni, ma alle attualizzazioni sistematiche che tante volte si rivelano dei boomerang».
Ci sono registi delle nuove generazioni che vede come suoi discepoli? Cosa ne pensa del veneziano Damiano Michieletto?
«Michieletto è un amico, lo stimo molto, ma non lo considero mio allievo perché ha fatto un percorso suo. Come allievo penso a Massimo Gasparon: ha lavorato molto con me, ora sta facendo la sua carriera in giro per il mondo».
Qual è il futuro del teatro post-Covid? I suoi prossimi progetti?
«Il problema non è creare spettacoli ad hoc, ma fare teatro: ci deve essere uno spettacolo in scena e un pubblico che guarda, ascolta e giudica. Non si può immaginare di riprenderlo e mandarlo in streaming, non è teatro. Senza pubblico, il teatro non esiste: è una simbiosi che non può essere abolita. Progetti futuri? A fine agosto a Spoleto inaugurerò il festival con l’Orfeo di Monteverdi; poi, sarà la volta del Rinaldo a Firenze e a Venezia».