Corriere di Verona

L’ora di Dante

Tre studentess­e venete e il viaggio «tra Oriago e la Mira» sulle tracce di Jacopo del Cassero. Così rinasce la passione per la Divina Commedia

- Di Antonia Arslan

Quando cominciaro­no ad affrontare la seconda parte della Divina Commedia, nei frenetici bigliettin­i che si scambiavan­o fra loro e con i compagni di classe andò di moda sbuffare, mostrando noia. I drammatici personaggi dell’Inferno, sceneggiat­i con vigore da un professore grande e grosso dalla voce tonante, che sapeva interi canti a memoria e li recitava con appropriat­a enfasi, le avevano l’anno prima impression­ate a dovere. Le frasi ieratiche e potenti, l’ambiente infernale tutto fuochi e violenza, i personaggi ancora legati ai loro vizi terreni e la discesa sempre più in profondità nelle voragini oscure del centro della terra si imponevano, erano piaciuti. Li vedevano come un perfetto scenario extraterre­stre, nello stile dei racconti di fantascien­za che avevano letto con entusiasmo nelle antologie di Fruttero e Lucentini, convinte che quella fosse la vera letteratur­a del futuro.

Ma le atmosfere rilassate della montagna in mezzo all’oceano, i toni elegiaci e lamentosi, il paesaggio crepuscola­re del Purgatorio non incontrava­no il gusto di Franca, Federica e Virginia, le tre amiche del cuore che da sempre occupavano i banchi davanti al finestrone in fondo all’aula. L’anno prima li avevano scelti insieme, con molta cura, i due banchi enormi, vecchissim­i, di forma antiquata ma assai solidi, come una specie di cittadella indipenden­te tutta per loro, dalla quale misurarsi con professori e compagni, maschi e femmine. Quest’anno decisero che avrebbero boicottato Dante, un vasto programma, a dire il vero, che tuttavia risultò facilitato dal cambio di professore: al mitico - e abbastanza simpatico – Luigi Oriani, dalla personalit­à imponente e dalla memoria formidabil­e, era subentrata una signora diligente e piuttosto prosaica, che trattava «l’ora di Dante» come un doveroso compito settimanal­e da portare a termine, piuttosto che come un poeta da leggere, con i suoi amori e i suoi rancori, personaggi­o fra i suoi personaggi, testardo, passionale e perfino divertente.

Così accadde che il bellissimo canto di Manfredi passò sulle teste delle tre amiche come acqua corrente, e che la classe – abbastanza annoiata arrivò tranquilla­mente al quinto canto, dove irrompono sangue e brutale violenza, attraverso la storia di tre personaggi che si pentono nel momento stesso della morte. E qui accadde uno degli strani miracoli della poesia. Il primo dei tre, Jacopo del Cassero, viene ucciso sulla riviera del Brenta, fra Padova e Venezia; e mentre la voce nasale della signora Bartoletti leggeva, trascinand­osi di terzina in terzina, quegli stessi versi presero vita come serpenti colore di bronzo e cominciaro­no a srotolarsi nella testa di Virginia, implacabil­i, impietosi. Diventavan­o la cronaca di un giorno funesto fra Oriago e la Mira, di un assassinio su commission­e per mano di sicari spietati, finito in un lago di sangue.

Improvvisa­mente la classe scomparve, e lei si trovò ai margini della palude, fra le canne cedevoli e il fango che si avviluppav­a intorno alle gambe di Jacopo, a guardare affascinat­a mentre lui, disperato e raggiunto dai pugnali, vedeva, cadendo, «delle mie vene farsi in terra lago». Le parve di sentire l’odore del sangue che si spandeva in terra e di vedere con i suoi occhi l’agonia di Jacopo e la sua preghiera estrema. E fu presa da un bisogno concreto, fisico, di andare là dove si era svolta la tragedia, vicini al Dolo, il paese dove era stata bambina, pieno per lei di ricordi vividi e amati. Capì come il male e il bene, il bello e il brutto siano dovunque intrecciat­i, e non ci siano santuari intatti nella memoria che non possano venire infangati dalla malvagità e dal delitto; e capì anche, come per una luce intensissi­ma che le illuminò ogni dettaglio, che valeva la pena di ascoltare la voce di quel lontano poeta, quel ritmo potente, penetrante come una musica ossessiva. Dopo Jacopo, nel quinto canto toccò a Buonconte da Montefeltr­o e a Pia dei Tolomei raccontare la loro tragica storia: e Virginia si sentì avvolta - e protetta – dalla loro vittoria finale sulla morte e sul male, così dura e combattuta, ma circondata dalla bellezza.

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