Farah, condannato il padre violento
Due anni al genitore pakistano che dovrà risarcirla: «La mia vittoria è la libertà»
«La mia vittoria è la libertà, non la condanna di mio padre per ciò che di brutto mi ha fatto». Prima che in tribunale scattasse il lockdown per il coronavirus, l’accusa aveva chiesto per il genitore pakistano di Farah Tanveer 18 mesi di carcere. Ma ieri il giudice Laura Donati ha inflitto all’imputato una pena ancora più pesante - due anni di reclusione - riconoscendolo colpevole di aver «maltrattato la figlia Farah sottoponendola a un regime di vita dolorosamente vessatorio».
«La mia vittoria è la libertà, non la condanna di mio padre per ciò che di brutto mi ha fatto». Prima che in tribunale scattasse il lockdown per il coronavirus, l’accusa aveva chiesto per il genitore pakistano di Farah Tanveer 18 mesi di carcere.
Ma ieri il giudice Laura Donati ha inflitto all’imputato una pena ancora più pesante due anni di reclusione - riconoscendolo colpevole di aver «maltrattato la figlia Farah sottoponendola a un regime di vita dolorosamente vessatorio». Il 61enne Hussain Tanveer è stato ritenuto responsabile di averla «percossa più volte con calci e spintoni, apostrofandola con epiteti come “stronza” e “bastarda”, impedendole di avere normali relazioni sociali, vietandole di frequentare» Christian, il ragazzo veronese «con cui Farah intratteneva una relazione sentimentale, minacciando di ucciderla a causa di questa frequentazione e di rimandarla in Pakistan». Per questo ieri, dopo le iniziali repliche pronunciate dal pm Susanna Balasini, la parola è passata al giudice Donati che ha deciso di condannare l’imputato a due anni di reclusione (con pena sospesa) e a risarcire in via provvisionale con 10mila euro la figlia, costituita parte civile con l’avvocato Sara Montagna. Un verdetto le cui motivazioni verranno depositate entro 15 giorni e che quasi certamente verrà impugnato dal difensore Mattia Guidato portando il caso davanti all’Appello. Stando alle ipotesi accusatorie, il genitore pakistano oltre a maltrattarla avrebbe anche sequestrato per tre giorni figlia: sarebbe accaduto dal 18 al 21 settembre 2017, quando avrebbe «privato della libertà» Farah, segregandola in casa per impedirle di vedere il fidanzato italiano Christian. Questa seconda contestazione, però, è stata esclusa dal magistrato, che forse ha ritenuto quelle azioni comprese nella più ampia ipotesi dei maltrattamenti. Per andare oltre il campo delle ipotesi ed entrare in quello delle certezze, bisognerà comunque leggere le motivazioni del dispositivo con cui si è chiuso il processo di primo grado. In aula, mentre il giudice leggeva la decisione, né Farah né il padre imputato erano presenti. È stato l’avvocato Montagna a comunicare alla ragazza l’esito dell’udienza: «La mia vera vittoria non è veder condannato mio padre per ciò che di male mi ha fatto - ha reagito Farah -. La mia vera vittoria è aver conquistato la mia libertà».
Adesso infatti la ragazza, 21 anni compiuti a dicembre, può «finalmente» vivere il suo «amore italiano» alla luce del sole, senza più sotterfugi e paure: la coppia si è trovava un appartamento dove convive, entrambi lavorano e si mantengono da soli. E dopo la senla tenza di ieri, la speranza della giovane e soprattutto coraggiosa pakistana è che «se altre donne si trovano nel mio stesso incubo, possano capire che la giustizia esiste e che devono trovare la forza di denunciare e ritrovare la propria libertà». Un «incubo» che il genitore della ragazza durante il processo ha tuttavia negato di averle fatto vivere, respingendo nella loro totalità le accuse: «Mia figlia Farah? Mai maltrattata né rinchiusa, mai insultata e neppure privata della libertà», si è strenuamente difeso in aula il 61enne, gestore di un negozio di telefonini in città, dove da anni risiede con la famiglia. Sotto lo stesso tetto, prima che la sua storia finisse su giornali e tv, abitava insieme a lui, alla madre e ai fratelli anche Farah, il cui nome balzò due anni fa all’attenzione dei media nazionali per il blitz con cui, dopo aver lei stessa contattato la trasmissione di Italia 1«Le Iene», venne liberata dalla polizia a Lahore, la sua città natale in Pakistan, dove sarebbe stata «trascinata con l’inganno dai familiari e trattenuta contro la sua volontà». Ma soprattutto, dove sarebbe stata «fatta abortire a propria insaputa, dopo averla sedata con la collaborazione di una dottoressa del luogo». Era fine maggio del 2018 quando Farah venne riportata dagli agenti in quella Verona dove, secondo la rigida mentalità della famiglia d’origine, avrebbe commesso l’«imperdonabile» errore di fidanzarsi con un italiano e concepire con lui la creatura che teneva in grembo. E che non ha potuto venire al mondo.
La reazione della ragazza Spero che dopo questa sentenza quelle donne che si trovino nel mio stesso incubo denuncino