Dalla prof alla pallavolista «la nostra vita da guariti»
Sono 17mila i veneti negativizzati. «Saremo migliori di prima»
«Questa cosa me la porterò dentro per tutta la vita». Sorride, Felice Costa. Ha 47 anni, abita a Castelfranco con la moglie e i due figli e lavora nell’ufficio legale di Assindustria Venetocentro. Quella «cosa» che si porta dentro è il ricordo del Covid 19.
Cento giorni dopo la prima grande ondata di dimissioni dagli ospedali del Veneto - a cavallo tra la fine di marzo e il mese di aprile - siamo andati a parlare con chi, in quelle settimane, ha saputo sconfiggere la malattia. Volevamo capire se qualcosa è cambiato nelle loro vite. E per molti di loro la risposta è che, in un certo senso, dal coronavirus non si guarisce mai.
«Ne sono uscito trasformato» assicura Costa. Ricoverato il 17 marzo a Jesolo, è finito in terapia intensiva, intubato. Ha ripreso conoscenza il 23 marzo, il giorno del compleanno di sua figlia. E l’11 aprile è stato dimesso. «Dal punto di vista fisico, a tre mesi di distanza soffro ancora di dolori lancinanti alla schiena. Inoltre, la notte ho spesso degli incubi: sogno di trovarmi nel mio letto d’ospedale...». Ma il vero cambiamento, assicura, è interiore. «Mi sento un miracolato. Non sono mai stato un credente, eppure ho sentito l’energia delle tante persone che pregavano per me. Ora ho capito che esiste qualcosa di molto vicino a Dio».
Settimane di malattia costringono chiunque a fare i conti con pregi e difetti del proprio carattere. «Prima del Covid mi incaponivo sulle cose. Adesso ho imparato a lasciarle andare e a concentrarmi soltanto su ciò che conta davvero».
Non è molto diverso da ciò che sta capitando a Giovanna Boccuzzo, 53 anni, docente dell’Università di Padova (è la direttrice del dipartimento di Statistica) che a marzo finì nel reparto Infettivi. «Ogni tanto ho il fiato corto ma direi che fisicamente sto piuttosto bene». Assicura di aver cambiato approccio alla vita: «Da quando ho lasciato l’ospedale, ho rivalutato le mie priorità. Continuo a lavorare molte ore al giorno ma adesso non mi faccio più prendere dall’ansia. In generale, posso dire di sentirmi più serena».
Uno dei primi veneti positivi al Covid 19, fu un dentista di Scorzé (Venezia), Federico Rotunno. Lo ricoverarono il 24 febbraio e uscì dall’ospedale sessanta giorni dopo e venti chili in meno. «Il virus ha provocato una lesione a un nervo della lingua: al mio risveglio, nel reparto di terapia intensiva, non potevo parlare né deglutire. Ancora adesso il recupero non è completo: ho la voce bassa e devo continuare con la fisioterapia».
Anche lui sente di aver acquisito una nuova consapevolezza. «Ho scoperto di avere tanti amici sinceri, anche tra i miei pazienti, e sto imparando ad apprezzare le cose semplici. Quando le persone scoprono quello che ho dovuto supeAnche
rare, credono che io mi senta invincibile e che ora nulla possa spaventarmi. Beh, non è così. Io ho paura di provare ancora quel tipo di paura: quella autentica, che ti blocca i pensieri e che ti fa credere che tutto possa finire in un istante. Non posso proprio dimenticarla, quella paura...».
Chi appartiene alla categoria dei sopravvissuti al Covid, più di ogni altra cosa teme che i contagi tornino a salire. I guariti, come Rotunno, lo ripetono da settimane: «Vedo le persone senza mascherina, gli assembramenti, e mi si gela il sangue. Sono ancora troppi coloro che non hanno capito la pericolosità del virus».
Valentina Collareda sta molto meglio e finalmente è tornata, dopo mesi, al suo posto di lavoro tra i letti della Rianimazione dell’ospedale San Bortolo di Vicenza. In quello stesso reparto dove è rimasta per due settimane, come paziente.
Valentina abita a Schio, ha 35 anni, ed è stato il primo medico della zona a contagiarsi. «Mi hanno ricoverata il 10 marzo e sono stata dimessa il 2 aprile. In mezzo ci sono stati quei quindici giorni più complicati, in cui non riuscivo a respirare». Dice che, con il lavoro che fa, ha sempre avuto ben chiaro il fatto che tutto può cambiare in un attimo. «Ma ora che ho provato sulla mia pelle cosa significhi “stare dall’altra parte”, sdraiati sul letto di un ospedale, sono convinta che migliorerà il mio rapporto con i pazienti». La malattia le ha fatto aprire gli occhi su tante cose: «Mi sono sentita circondata da un affetto sincero e inaspettato. È stato incredibile vedere quante persone si sono affannate per starmi vicine».
Valentina Rubert, 37 anni, allenatrice del minivolley e della formazione Under 12 della Pallavolo Motta di Lievenza, assieme alla dottoressa Collareda è una delle più giovani contagiate ad aver avuto bisogno di un ricovero ospedaliero. Intubata, è riuscita a riprendersi rapidamente e il 7 aprile è stata dimessa. Ma anche lei ha ancora difficoltà a dormire: «Gli incubi, lo stress... Dopo tutto quel che mi è capitato, non riesco a riposare serenamente». Si chiede spesso cosa le rimarrà di questa sua esperienza. «Ora do più valore alla famiglia e spendo meglio il mio tempo».
Il tempo. Quello che è mancato ai duemila veneti che hanno perso la battaglia contro il coronavirus. Sono invece quasi 17mila coloro che oggi risultano guariti. Ciascuno con la propria storia e un bagaglio di buoni propositi. Perché il Covid 19 si sconfigge anche così: imparando a non ripetere gli errori del passato.
Lo pensano in tanti. E Valentina se lo ripete tutte le mattine, appena sveglia: «Quando l’emergenza finirà, dovrò essere una persona migliore».
Ho rivalutato le priorità Non mi faccio più prendere dall’ansia e posso dire di sentirmi più serena
La gente crede che mi senta invincibile Ma non posso dimenticare la paura che ho provato