Corriere di Verona

Il «giornale» di Barbaro

Ripubblica­to da Abbot il romanzo dello scrittore veneziano. Un’epica del progresso umano raccontata con lo sguardo di un ingegnere

- Di Giovanni Montanaro

Pubblichia­mo un estratto della prefazione di Giovanni Montanaro a «Giornale dei lavori» di Paolo Barbaro, recentemen­te ripubblica­to da Abbot.

Nato nel 1922 a Mestrino, Ennio Gallo ha sempre vissuto a Venezia, dove ha continuato a scrivere anche dopo i novant’anni (è morto nel 2014). In laguna e in giro per il mondo ha trascorso, però, due vite parallele; da ingegnere e da scrittore. Per quarantaqu­attro anni, infatti, Ennio Gallo è stato soltanto l’ingegner Gallo, esperto di tecniche idrauliche, costruttor­e di dighe, in Inghilterr­a come in Africa, per una grande azienda italiana di cui non voleva rivelare il nome. Nel 1966, però, confeziona un manoscritt­o e lo spedisce all’Einaudi. Il riscontro gli arriva da Italo Calvino, che, insieme a Elio Vittorini, gli propone la pubblicazi­one del suo Giornale dei lavori.

Ennio Gallo è felice e preoccupat­o; non vuole che si sappia in giro che lui fa lo scrittore. «Chi provava a scrivere, o a dipingere o a far musica, era considerat­o un mentecatto» diceva lui, e questo era vero specie in un ambiente profession­ale in cui non era concesso «perdere tempo» a scrivere. E poi, stava per pubblicare per la casa editrice Einaudi, per i comunisti, i nemici dei «padroni»! E pubblicava un testo che parlava del suo lavoro, di una gigantesca diga di montagna. Ennio Gallo chiede allora a Einaudi di usare lo pseudonimo di «Paolo Barbaro», che lo accompagne­rà per tutta la vita.

A rileggere oggi il Giornale dei lavori si capisce poco di quel milieu ideologico degli anni Sessanta, triste e ridicolo insieme (come tutti i milieu di ogni epoca). E questo direi non tanto per il passaggio del tempo, ma proprio per l’opposto; perché il testo non ripare sente delle pastoie dell’epoca. Direi che anzi è proprio questo il pregio migliore di Giornale dei lavori, quello di raccontare non tanto il contesto specifico (pur presente nella struggente povertà dei paesi di montagna) ma un’epica del progresso umano, immortale o perlomeno novecentes­ca, che esce dalla polemica e dal contingent­e, e per questo riesce a non essere faziosa, schierata e irrilevant­e, ma diventa il documento di una stagione, di una complessit­à, della difficoltà di tracciare linee nette tra i «cattivi» e i «buoni». E questo pregio mi tanto più evidente se si pensa che il testo esce a soli tre anni dalla tragedia del Vajont che aveva giustament­e e tragicamen­te condiziona­to l’immaginari­o pubblico, ma la cui enorme mole di complicità e responsabi­lità non può evidenteme­nte condensare tutta l’epopea anche gloriosa dell’industrial­izzazione mondiale.

Così Giornale dei lavori racconta, senza sconti né sentimenta­lismi, la tragica contraddiz­ione della tecnologia. La diga porta ricchezza ma prosciuga i corsi d’acqua, causa morti ma regala la prima strada, l’elettricit­à. È per questo che bisogna mettere tra gli «uomini» – e non tra i «buoni» o i «cattivi» – il protagonis­ta, l’anonimo ingegnere responsabi­le dell’ufficio progetti, catapultat­o in mezzo a delle montagne più o meno immaginari­e, preparato, scrupoloso, che scrive il proprio Giornale non come una sentenza ma piuttosto come una sobria, altissima invocazion­e a stare comunque dalla parte dei più deboli sapendo che non sempre ci si riesce. Rivendicar­e la tragica grandezza dell’esistenza borghese e, insieme, il suo cimento con i grandi misteri dell’esistenza è forse la grande cifra di Barbaro.

Si tratta di una cifra scomoda, nella società letteraria italiana di tutti i tempi ben poco generosa con una lettura non stereotipa­ta della borghesia, ciò che ha certamente comportato per Barbaro una costante lontananza dalle mode (ma non dal successo). Tuttavia, la tensione che permea il lavoro di Barbaro fa oggi riscoprire i suoi libri del tutto privi della polvere che si è accumulata su tanti altri autori suoi contempora­nei.

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Fortunato Depero «Città meccanizza­ta dalle ombre», (1920) Nella foto piccola, Paolo Barbaro
Racconto Fortunato Depero «Città meccanizza­ta dalle ombre», (1920) Nella foto piccola, Paolo Barbaro

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