REFERENDUM, LE RAGIONI DI UN SÌ
Il miglior motivo per votare a favore della riduzione del numero dei parlamentari ce lo hanno fornito loro stessi, categoria instabile e incline a cambiare rotta secondo il vento del momento. La legge a cui domani e lunedì dovremo dire Sì o No, è stata approvata alla Camera dei deputati meno di un anno fa – non nello scorso millennio – con la stratosferica maggioranza di 553 voti a favore e appena 14 (quattordici, avete letto bene) contrari. Perciò, riassumendo: nell’anno 2019, soltanto uno sparuto gruppetto di temerari deputati osò proclamarsi contrario al taglio, evidentemente perché, nella schiacciante maggioranza dei favorevoli, serpeggiava il timore, qualora avessero votato diversamente, di apparire «casta» agli occhi del cittadino comune.
Nell’anno 2020, avvicinandosi il verdetto inappellabile del referendum, molti di quei parlamentari che dissero sì ora voterebbero No e più di qualcuno lo dichiara apertamente, magari mescolando umane preoccupazioni (meno posti uguale meno possibilità di tornare in Parlamento) con l’aspettativa che un successo dei contrari contribuisca a mettere in difficoltà il governo in carica. Memorabile, in rappresentanza della categoria, rimane il caso dell’onorevole di centrosinistra Roberto Giachetti: «Voto il taglio dei parlamentari (per disciplina di partito, ndr), ma un minuto dopo raccoglierò le firme per cancellarlo con un referendum: questa riforma è un tributo agli istinti peggiori dell’elettorato». Sarà pure come dice Giachetti, ma si dà il caso che gli «istinti peggiori dell’elettorato» siano alimentati anche e soprattutto da un ceto politico che attira su di sé disistima e diffidenza proprio per la facile abitudine a cambiare idea con grande disinvoltura a seconda delle circostanze o, peggio, delle convenienze personali e di partito.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che la riduzione degli eletti avrebbe più senso e si presenterebbe meglio se fosse stata inserita in una riforma più ampia e organica del sistema parlamentare, a cominciare da una legge elettorale coerente e, magari, da una revisione del bicameralismo perfetto. C’è da dire, però, che chi finora ha provato a fare le cose più in grande (sia Berlusconi nel 2006, sia Renzi dieci anni dopo, mettevano la riduzione dei parlamentari dentro i loro ambiziosissimi progetti di riforma) è naufragato contro la netta contrarietà degli italiani a modificare parti così ampie della Costituzione. Perciò, cominciamo intanto da un passo più piccolo e probabilmente più digeribile. Anche perché la storia politica di questo Paese ci insegna che il «benaltrismo» – ovvero, ci vorrebbe ben altro per fare le cose come Dio comanda – è un veleno potentissimo, capace di uccidere in culla anche le riforme più giuste.
Per concludere, da libero cittadino che ha frequentato per motivi professionali i palazzi della politica, sono giunto ormai da anni alla conclusione che il numero dei parlamentari sia eccessivo, per una ragione elementare: 630 deputati e 315 senatori (totale 945) sono troppi per fare tutti lo stesso lavoro. Sono troppi loro e sono troppi gli addetti del sottobosco parlamentare – assistenti, segretari, addetti stampa, referenti sul territorio – che per loro lavorano. Migliaia di persone che, legittimamente sia chiaro, dedicano buona parte delle loro energie, remunerate con denari pubblici, a un obiettivo: creare le condizioni per tornare in Parlamento anche la prossima volta. Il troppo è nemico del giusto. E per chi grida all’inaccettabile riduzione della rappresentanza democratica, è pronta la sfida: citi qui e ora, senza sbirciare lo smartphone, il nome di 5 parlamentari del suo territorio, se li sa. Poi ne riparliamo.