La città ideale Marina Dragotto tra sogni e scenari
Una conversazione fra Marina Dragotto e Federico Della Puppa diventa un libro La deriva che si afferma dopo il miracolo economico. I percorsi per riqualificare
Periferie senza qualità, consumo di suolo, inquinamento: i centri urbani devono dare ascolto ai cittadini e saper mediare
Durante la pandemia tutti abbiamo sperimentato una sorta di schizofrenia, da un lato il distanziamento a casa come rifugio protettivo, di lavoro, didattica a distanza, assistenza, recapito per l’e-commerce; dall’altro, la radicale insufficienza dell’abitare isolati, una forma che non sia solo privata, ma anche social. Il senso sociale dell’abitare non sta dentro la casa, ti porta a interrogarti sulle relazioni dentro/fuori casa, ovvero con la città. Ci parla di tutto questo, e altro ancora, A chi serve la città? (Zel edizioni), una lunga intervista in forma di conversazione, Marina Dragotto. Marina è mancata un anno fa dopo lunga malattia. Ma il libro è venuto alla luce grazie alla intensa cura e al delicatissimo lenimento del dolore, di Federico Della Puppa, che per assonanza di interessi culturali e passioni politico – professionali, ha realizzato questa condivisione editoriale profondamente voluta da entrambi. La traiettoria di studi e professionale di Marina parla da sé. Laureata all’Iuav in pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale, poi al Centro Internazionale Città d’Acqua fino al Coses, istituto veneziano di programmazione pubblica come non ne esistono più, a seguire proprio il Piano Strategico per poi lavorare in Comune a Venezia con grande competenza e spirito di gruppo ai Fondi europei e per la rigenerazione dell’Arsenale. Chi fa questo mestiere l’apprezza soprattutto perché anima Audis, l’associazione che in Italia significa più di tutto le aree dismesse. Uno dei casi rarissimi in cui finezza culturale, rigore metodologico ed esperienza professionale convergono in capacità tecnica di intervento. Le conversazioni che si alternano nel libro affrontano da punti di vista diversi sempre il medesimo problema: come affrontare la deviazione dal solco della città, quella densa e relazionale così viva nella tradizione italiana, che è rappresentato dalla città diffusa. Marina ne scandisce le dimensioni patologiche: la periferizzazione senza qualità, l’isolamento dalla vita sociale, il consumo di suolo, l’impronta ecologica pesante. Tutti costi non contabilizzati sull’altare della privatizzazione dello spazio sociale, della casa in proprietà, dell’uso obbligato dell’auto che non considerano i bisogni di socialità dei bambini fuori da scuola, l’accesso ai servizi delle persone fragili, il risparmio di energia e di suolo.
La città diffusa non nasce per caso. È dentro una deriva lunga di cultura anti urbana che si afferma dopo il miracolo economico in cui erano stati «tutti pazzi per lei», la città industriale, che accoglieva milioni di famiglie dalle campagne proiettandole verso il benessere. Antiurbanesimo, peraltro, con il Covid invocato da archistar, fautrici di un «ritorno ai piccoli borghi».
L’espansione della città diffusa fa il paio con i vuoti urbani che si aprono nelle città a ridosso delle crisi industriali e dell’abbandono da parte del nuovo ceto medio dei quartieri più popolosi. Le città si sfibrano perdendo le formidabili spinte alla riproduzione del capitale sociale, dalla contaminazione culturale ai servizi collettivi fondamentali come la sanità e la scuola, dai luoghi per gli incontri e lo sport, al vorticoso mescolamento di relazioni dentro/fuori.
Se la città diffusa non riproduce capitale sociale, la città con spazi dismessi non riesce ad essere motore economico, in un gioco di indebolimento reciproco che ci porta al declino che stiamo vivendo. La diagnosi è brutale, come irresistibile la passione per un modello di città che deve ritornare punto di riferimento. E qui Marina percorre tutto il repertorio di strumenti e processi per rigenerare la città: dalla partecipazione concertativa tra istituzioni, cittadini, investitori al riconoscimento di privati con responsabilità sociale - ce ne sono - senza demonizzazioni; una regolazione per le aree dismesse di vasi comunicanti tra investimenti che remunerano e accantonamenti che compensano. Dopo le sbornie dell’offerta da overbooking, bisogna dare spazio al mercato, alla domanda, per esempio alla domanda diffusa di residenzialità di qualità a costi accessibili. La città è costruzione di complessità, interconnessioni e servizi collettivi alle persone per le quali è essenziale la politica perché la complessità è ascolto e mediazione. Pensieri che dovrebbero diventare un breviario per ogni sindaco. A un certo punto, di questo scrigno di appassionato amore urbano, una folgorante intuizione: la «città di mezzo» che non è periferia, né città diffusa ma è qualcosa che assomiglia alla città che vogliamo, anche nel nostro Veneto, per ricomporre il tessuto, la trama e l’ordito, tra economia e società.