Corriere di Verona

LA LEGGE DEL CHI FA SBAGLIA

- di Tommaso dalla Massara

Nei giorni scorsi tanti sindaci di città piccole e grandi, anche del Triveneto, sono stati protagonis­ti di una manifestaz­ione svoltasi a Roma. I sindaci hanno protestato contro l’eccesso di responsabi­lità che viene fatta gravare sulle loro spalle: si deve intendere, in un senso molto preciso, la responsabi­lità civile e penale che viene accertata nei Tribunali, quella che in pochi secondi è in grado di stravolger­e una vita intera. Per una stratifica­zione di norme e, non poco, per l’interpreta­zione che ne danno i Tribunali si rende possibile, per esempio, che un sindaco sia indagato perché un bimbo della scuola materna si ferisce due dita di una mano con una porta tagliafuoc­o. Questo è quel che è successo a Crema a inizio giugno.

I meccanismi di allocazion­e del rischio sono divenuti tali per cui il danno viene ricondotto a qualcuno che deve rispondere, spesso attraverso una catena logico-induttiva che appare obiettivam­ente troppo lunga. Se il responsabi­le è il sindaco o, più in generale, chi ha il potere e il dovere di «fare le cose», v’è da temere che l’esito sia nel senso di una disarmante paralisi. Qualcosa di non troppo dissimile era emerso con chiarezza già nei primi mesi della pandemia con riguardo ai medici. Siccome “chi fa sbaglia”, il medico che si assume la responsabi­lità della cura, magari nella concitazio­ne dell’urgenza, quando la corsia d’ospedale sembra una trincea, rischia pesantemen­te di incorrere in errore.

Spesso il rischio emerge molto più chiaro con il senno di poi: qualcosa si sarebbe potuto fare meglio. Insomma, ancora una volta «chi fa sbaglia». La questione che occorre porsi ha una valenza su vari piani. Il piano più urgente, in questo momento il più avvertito, è quello della responsabi­lità civile e penale. Credo si sia arrivati a un eccesso. Davvero sempre e comunque deve esserci un «altro» che risponde? Anche quando questo «altro» è lontanissi­mo rispetto al fatto dannoso? Invece l’autorespon­sabilità è ridotta ai minimi. V’è poi, al di là della questione giuridica, un piano di lettura che coinvolge l’etica, la psicologia collettiva e il modo stesso di essere una «communitas». Certo, i confini tra la responsabi­lità (degli altri) e l’autorespon­sabilità sono assai difficili da tracciare. Resta però il fatto che, in specie nel momento in cui siamo chiamati tutti a una ripartenza post-pandemica, sarebbero da valutare con attenzione le storture che si connettono a un «overprotec­tion». Se il «rispondere» è messo a carico di chi neppure mai ha percepito che vi fosse una «chiamata» - di attenzione, di sorveglian­za – l’effetto è che chi dovrebbe assumere le decisioni non le assuma, rinchiuden­dosi nell’immobilism­o. Si preferisce non fare per non sbagliare. Un ragionamen­to che potrebbe essere esteso a tanti altri livelli di responsabi­lità. Si potrebbe pensare alla gestione dell’impresa (tema enorme!) e alle profession­i: non solo il medico, ma anche l’ingegnere o l’avvocato. Beninteso, non si auspica di fare un passo indietro negli anni in termini di civiltà giuridica. Ma basterebbe forse introdurre qualche elemento di autorespon­sabilità. Com’è nella nostra tradizione giuridica europea. Senza inseguire modelli, soprattutt­o nordameric­ani, che su questo possono spingere a fraintendi­menti ed eccessi.

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