LA LEGGE DEL CHI FA SBAGLIA
Nei giorni scorsi tanti sindaci di città piccole e grandi, anche del Triveneto, sono stati protagonisti di una manifestazione svoltasi a Roma. I sindaci hanno protestato contro l’eccesso di responsabilità che viene fatta gravare sulle loro spalle: si deve intendere, in un senso molto preciso, la responsabilità civile e penale che viene accertata nei Tribunali, quella che in pochi secondi è in grado di stravolgere una vita intera. Per una stratificazione di norme e, non poco, per l’interpretazione che ne danno i Tribunali si rende possibile, per esempio, che un sindaco sia indagato perché un bimbo della scuola materna si ferisce due dita di una mano con una porta tagliafuoco. Questo è quel che è successo a Crema a inizio giugno.
I meccanismi di allocazione del rischio sono divenuti tali per cui il danno viene ricondotto a qualcuno che deve rispondere, spesso attraverso una catena logico-induttiva che appare obiettivamente troppo lunga. Se il responsabile è il sindaco o, più in generale, chi ha il potere e il dovere di «fare le cose», v’è da temere che l’esito sia nel senso di una disarmante paralisi. Qualcosa di non troppo dissimile era emerso con chiarezza già nei primi mesi della pandemia con riguardo ai medici. Siccome “chi fa sbaglia”, il medico che si assume la responsabilità della cura, magari nella concitazione dell’urgenza, quando la corsia d’ospedale sembra una trincea, rischia pesantemente di incorrere in errore.
Spesso il rischio emerge molto più chiaro con il senno di poi: qualcosa si sarebbe potuto fare meglio. Insomma, ancora una volta «chi fa sbaglia». La questione che occorre porsi ha una valenza su vari piani. Il piano più urgente, in questo momento il più avvertito, è quello della responsabilità civile e penale. Credo si sia arrivati a un eccesso. Davvero sempre e comunque deve esserci un «altro» che risponde? Anche quando questo «altro» è lontanissimo rispetto al fatto dannoso? Invece l’autoresponsabilità è ridotta ai minimi. V’è poi, al di là della questione giuridica, un piano di lettura che coinvolge l’etica, la psicologia collettiva e il modo stesso di essere una «communitas». Certo, i confini tra la responsabilità (degli altri) e l’autoresponsabilità sono assai difficili da tracciare. Resta però il fatto che, in specie nel momento in cui siamo chiamati tutti a una ripartenza post-pandemica, sarebbero da valutare con attenzione le storture che si connettono a un «overprotection». Se il «rispondere» è messo a carico di chi neppure mai ha percepito che vi fosse una «chiamata» - di attenzione, di sorveglianza – l’effetto è che chi dovrebbe assumere le decisioni non le assuma, rinchiudendosi nell’immobilismo. Si preferisce non fare per non sbagliare. Un ragionamento che potrebbe essere esteso a tanti altri livelli di responsabilità. Si potrebbe pensare alla gestione dell’impresa (tema enorme!) e alle professioni: non solo il medico, ma anche l’ingegnere o l’avvocato. Beninteso, non si auspica di fare un passo indietro negli anni in termini di civiltà giuridica. Ma basterebbe forse introdurre qualche elemento di autoresponsabilità. Com’è nella nostra tradizione giuridica europea. Senza inseguire modelli, soprattutto nordamericani, che su questo possono spingere a fraintendimenti ed eccessi.